Una battaglia per la democrazia

di Vincenzo De Robertis

Ridurre il numero dei Parlamentari” è la parola d’ordine attuale e principale del Movimento 5 stelle, ed in particolare del suo leader (o capo politico, come preferisce farsi chiamare), Luigi Di Maio, che la utilizza per magnificare il proprio partito, primo ed unico artefice, a suo dire, di una riforma originale, e per attaccare gli avversari di turno, prima il PD, ora la Lega, quali “difensori della casta”.

Si tratta, invero, di pura propaganda, perché di originale e di unico non vi è nulla.

La questione del numero di Deputati e Senatori è regolata dagli articoli 56 e 57 della Carta Costituzionale e, quindi, la loro riduzione deve seguire la procedura complessa che segue ogni riforma costituzionale.

Con molta chiarezza il travagliato e pluridecennale iter legislativo di una riduzione del numero dei Parlamentari viene ricordato in un articolo a firma di Marta Paris, apparso sul Sole 24 ORE già il 7 febbraio 2014, quando Renzi, cavalcando prima dei grillini i temi dell’antipolitica e della riduzione dei costi della politica, presentò la sua riforma costituzionale che prevedeva l’abolizione del Senato, come assemblea elettiva, e la sua sostituzione con un consesso di poco più di 100 componenti, scelti prevalentemente dalle Regioni e da esse pagati.

Spiega l’articolo che di riduzione del numero dei Parlamentari si cominciò a parlare più di 30 anni fa, negli anni ’80: “A partire, nella IX legislatura, dalla “Commissione Bozzi” (30 novembre 1983-29 gennaio 1985) che non formalizzò però su questo tema una propria proposta, così come non lo fece nella XI legislatura la “Commissione De Mita-Iotti” (1992-1994). La Bicamerale presieduta nel 1997 da Massimo D’Alema, aveva esaminato invece un progetto che indicava da 400 a 500 deputati e 200 senatori. Il primo testo di riforma che arrivò fino al referendum del giugno 2006, per essere bocciato, fu quello varato dal Parlamento nella XIV legislatura [Governo Berlusconi N.d.R.] cui era prevista una Camera composta da 518 deputati e 252 senatori. Nella legislatura successiva la bozza Violante (il testo unificato approvato alla Commissione affari costituzionali di Montecitorio) prevedeva invece 512 deputati e un Senato con composizione «di secondo grado» (salvo i sei senatori eletti nella circoscrizione Estero) ad elezione indiretta di 186 componenti. Nella scorsa legislatura infine l’aula del Senato arrivò ad approvare una proposta che prevedeva 508 deputati e 250 senatori.

Come si può ben vedere niente di originale e di unico sotto il cielo a 5 stelle!

Una delle argomentazioni a sostegno della riforma sostenuta dal Movimento di Di Maio è quella che il numero dei parlamentari italiani in rapporto alla popolazione sarebbe il più alto d’Europa.

Niente di più falso, secondo il citato articolo, pubblicato nel 2014 dal Sole 24 ORE: “La classifica del numero di parlamentari in relazione alla popolazione vede le prime tre posizioni occupate da Malta con 16,4 “onorevoli” ogni 100mila abitanti, Lussemburgo (11,2) ed Estonia (7,6). Utilizzando questo criterio per arrivare alla posizione dell’Italia – che di parlamentari ne ha solamente 1,6 – bisogna scendere fino al ventiduesimo posto, dietro Danimarca (tredicesima con 3,2 parlamentari ogni centomila abitanti), Regno Unito (al diciannovesimo posto con 2,2 parlamentari). Meglio fanno la Francia, ventiquattresima (1,4), Spagna e Olanda (con 1,3) e la Germania, “ultima” con meno di un parlamentare (0,9) sullo stesso campione. Se si passa invece ad analizzare la graduatoria in termini assoluti, l’Italia con 950 tra deputati e senatori è al secondo posto, dopo i 1.431 del Regno Unito. Seguita da Francia (925), Germania (700) e Spagna (616).

In realtà, ferma restando la storia diversa con cui le varie nazioni europee sono pervenute alla democrazia parlamentare, il numero dei Parlamentari è direttamente collegato alla funzionalità dell’Assemblea di appartenenza, Senato o Camera, in relazione al processo legislativo di competenza ed al rapporto con l’Esecutivo.

Come ho già scritto: “[Il numero dei Parlamentari] attiene alla funzionalità delle massime Assemblee elettive del Paese, che articolano la loro attività in Commissioni, a cui i Parlamentari eletti partecipano e dove vengono presentate le proposte di legge che nelle stesse commissioni vengono poi discusse, prima di essere presentate all’aula per l’approvazione. Purtroppo, una pratica nefasta degli ultimi anni ha fatto del Governo il principale protagonista dell’attività legislativa, sia per l’abuso della decretazione di urgenza, anche quando quell’urgenza non c’è, sia per la presentazione sempre più frequente di proposte di legge governativa, sia per l’uso eccessivo di legislazione delegata al Governo. Questa pratica ha finito per sminuire di fatto il ruolo del Parlamento rispetto al Governo ed una riduzione del numero dei Parlamentari finirebbe per accentuare questo fenomeno.

Ridurre il numero dei Parlamentari è, quindi, un modo come un altro per ridurre la funzionalità del Parlamento, trasformandolo più facilmente in un’appendice dell’Esecutivo, secondo una linea d’azione seguita negli ultimi decenni da forze politiche di orientamento diverso, talvolta apparentemente opposto.

Anche in questo caso, niente di nuovo sotto il cielo a 5 stelle!

La questione della riduzione del numero dei Parlamentari è connessa altresì al sistema elettorale vigente per l’elezione delle Assemblee parlamentari.

Infatti, già di per sé “la riduzione del numero dei Parlamentari incide sulla rappresentatività dell’elettorato ed in particolare delle forze politiche minori, perché al netto di qualsiasi sistema elettorale venga praticato, riducendone il numero, occorrerà una quantità maggiore di voti per eleggere un Parlamentare. Privata, così, della possibilità di esprimere propri rappresentanti, “per concorrere democraticamente alla vita politica del Paese”, come dice la Costituzione, una parte sempre più crescente dell’elettorato rinuncerà al diritto di voto, come sta avvenendo già da tempo. Ed oggi non meraviglia più che i dati elettorali vengano espressi in percentuale e non in valori assoluti, che chiaramente evidenzierebbero la perdita di consenso dei grossi partiti o delle grosse coalizioni, veri ed unici beneficiari di quel fenomeno antidemocratico, che è l’astensionismo.”

Siamo all’epilogo di una stagione politica e culturale, iniziata più di venticinque anni fa e che ha considerato prioritaria la governabilità del sistema rispetto alla rappresentatività delle varie sue componenti.

Una governabilità che nei primi quarant’anni della Repubblica, nell’ambito di un sistema elettorale proporzionale senza soglie di sbarramento, era stata garantita dalla Democrazia Cristiana coinvolgendo nel Governo forze politiche minori, come ad esempio il Partito Repubblicano o il Partito Liberale, ma che successivamente si è voluto ottenere con la coercizione e l’inganno, sia attraverso l’eliminazione di ogni possibilità di rappresentanza per forze politiche più piccole con le soglie di sbarramento, sia con la polarizzazione della vita politica su due poli, in apparente contrapposizione fra loro, il più votato dei quali avrebbe governato, grazie ad un sistema premiale maggioritario.

La fine oggettiva del bipolarismo con la comparsa sulla scena politica del Movimento 5 stelle, che in un tempo relativamente breve ha raggiunto percentuali di consenso elettorale da sparigliare la dialettica politica previgente, lasciava sperare in una stagione politica diversa, nella quale anche un quarto polo, di sinistra, poteva trovare uno proprio spazio politico autonomo dal PD.

Ma ben presto la speranza è svanita, sia per l’incapacità dei soggetti interessati di coalizzarsi in un quarto polo di sinistra, sia per il riposizionamento del M5s che a dispetto di quanto detto in campagna elettorale ha abbandonato, fra le tante cose, anche ogni proposito di revisione della legge elettorale, il cd Rosatellum, che con il suo 37% di maggioritario uninominale aveva consentito proprio al Partito di Grillo di fare man bassa di poltrone nei collegi meridionali, mentre ora rappresenta lo spauracchio di un successo elettorale autonomo della Lega di Salvini o di una coalizione di centro-destra.

L’ostinazione nel perseguire la riduzione del numero dei Parlamentari, nel contesto di una legge elettorale che non è completamente proporzionale e che contiene soglie di sbarramento, rende ancora più pericoloso il rischio che si attui un sistema di potere autoritario, dove lo spazio politico che ricaverebbe il M5s, oggi in caduta di consensi rispetto al 2018, sarebbe sicuramente inferiore e non determinante nello scenario politico futuro. Un capolavoro di idiozia!

La nostra democrazia, che la Costituzione ha disegnato come democrazia rappresentativa, ha nel Parlamento l’espressione più alta della sovranità popolare e presuppone quei corpi intermedi (Partiti, Sindacati, Associazioni), dove in passato veniva filtrata la volontà popolare, prima che divenisse delega di rappresentatività ai candidati proposti per l’elezione. Oggi, una volta che i vecchi partiti di massa si sono autodistrutti, ad essi sono stati sostituiti organismi verticistici, poco o per nulla democratici, più permeabili alle volontà dei singoli e delle lobbies e/o alla criminalità organizzata.

Sono questi organismi, i nuovi partiti, i padroni delle “candidature”, della possibilità, cioè, di proporre all’elettorato “la rosa dei papabili”, con l’obbligo anche di rinunciare a scegliere i più graditi, quando il sistema elettorale non consente all’elettore di esprimere preferenze. Nel contrasto sulla maggiore importanza che dovrebbe avere il diritto dell’apparato di partito di proporre i candidati ed il diritto dell’elettorato di scegliere i propri preferiti, quello vincente sembra oggi il primo, se guardiamo i sistemi elettorali.

Ma diventa sicuramente vincente il primo, se un’altra proposta del M5s dovesse trovare attuazione.

Parlo della proposta di modifica costituzionale della libertà di mandato, di cui oggi godono i Parlamentari, i quali possono votare secondo coscienza, senza il vincolo di seguire le direttive del Partito che li ha candidati. Una volta che fosse imposto il vincolo di mandato, con la conseguente sanzione della decadenza, il Parlamentare dovrebbe solo rispondere all’apparato di partito che lo ha candidato ed il voto degli elettori, che hanno consentito la sua elezione, varrebbe zero!

Infine, l’argomento principe per convincere il popolo italiano della bontà di una riduzione del numero dei Parlamentari è costituito dal risparmio per l’Erario (500 milioni di euro annui) che si determinerebbe con quella riduzione.

Invero, un risultato ben più consistente si otterrebbe riducendo gli emolumenti ed i privilegi accordati ancora oggi ai Parlamentari, che potrebbero vivere con uno stipendio netto di 7-8 mila euro, senza gli aumenti oggi accordati alle varie cariche come quelle dei capi-gruppo, o capi-commissione ecc. Le loro retribuzioni sono il parametro di riferimento per tutto l’apparato pubblico, politico (Regioni, grossi Comuni, ecc.), amministrativo (alti militari e magistrati, funzionari di grado elevato) ed economico (manager) per cui una riduzione dello stipendio avrebbe inevitabilmente un effetto a cascata con un risparmio ben più consistente dei tanto sbandierati 500 milioni annui.

Per non parlare dei privilegi ancora accordati, come il vitalizio, che si somma alle varie pensioni che il Parlamentare percepirà all’età prevista, mentre i comuni mortali hanno diritto ad un’unica pensione, in cui confluiscono i vari contributi versati. Questa dovrebbe essere la vera riforma dei vitalizi: versare i vari contributi in un unico calderone per veder garantita alla fine della propria attività un’unica pensione che equiparerebbe i Parlamentari ai comuni mortali e che avrebbe anche un effetto sulla dialettica politica, perché attenuerebbe la sconcezza che oggi spinge i Parlamentari a mantenere in vita una Legislatura esaurita, pur di raggiungere la fatidica soglia dei 4 anni e 6 mesi, che garantiscono il vitalizio.

In conclusione, se la riforma costituzionale della riduzione del numero dei Parlamentari, che tanto sta a cuore a Di Maio, dovesse andare in porto, dovremo da subito prepararci alla raccolta delle 500mila firme necessarie per la indizione del referendum abrogativo, dato che la riforma non ha avuto in Parlamento il quorum di consensi per impedire la consultazione popolare.

Sarà una bella battaglia dove i sostenitori della democrazia rappresentativa e parlamentare, della supremazia del potere Legislativo sugli altri poteri, del Parlamento sul Governo, dovranno fare i conti con la demagogia e l’imbroglio che tanto caratterizzano le attuali forze politiche.

Sarà una battaglia sicuramente difficile.

Ma le difficoltà si parano sempre di fronte a noi per il piacere di essere superate.

Vincenzo De Robertis

 

 
Consigliamo la lettura del volume Movimento operaio e lotta per la costituzione

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