di Francesco Galofaro, Università IULM di Milano
Cheng Enfu – Dialettica dell’economia cinese. L’aspirazione originale della Riforma, MarxVentuno Edizioni, Bari 2024.
Con una prefazione di John Bellamy Foster e un’introduzione di Vladimiro Giacché.
La traduzione italiana del volume di Cheng Enfu, un’opera immensa coordinata dall’infaticabile Andrea Catone, ha un valore inestimabile. Copre un buco: espone nel dettaglio la teoria economica cinese e descrive l’economia del Paese del dragone nel suo sviluppo e negli obiettivi. I vari capitoli enucleano i valori verso cui si orienta l’economia politica, il ruolo della distribuzione e dell’apertura ai mercati finanziari, il rapporto tra Stato e mercato.
L’autore, Cheng Enfu, è uno dei più importanti intellettuali cinesi contemporanei: è professore ordinario e direttore del Centro di ricerca per lo sviluppo economico e sociale presso l’Accademia cinese di scienze sociali e presidente della World Association for Political Economy. L’opera è frutto del lavoro di trent’anni.
Dell’autore ho un bellissimo ricordo. Nel 2019 ero a Pechino, a un convegno dell’Accademia cinese delle scienze sociali. La sera della vigilia, Cheng Enfu radunò le delegazioni dei diversi Paesi per presentare e discutere con noi intorno a un tavolo una sua idea ancora inedita: le cinque caratteristiche del neoimperialismo, il cui scopo è riattualizzare la teoria leniniana ai problemi del XXI secolo. Mi parve un uomo illuminato e umile al tempo stesso, desideroso com’era di sottoporre la sua tesi al vaglio delle nostre critiche. Il suo lavoro sarebbe stato pubblicato solo nel 2021 (https://monthlyreview.org/2021/05/01/five-characteristics-of-neoimperialism/ )
Una discussione scientifica e non ideologica sui caratteri dell’economia cinese non può prescindere da questo volume, il quale non è né un manuale né un improbabile documento propagandistico (un volume di oltre 500 pagine non può sperare di essere efficace, sotto questo aspetto). Peraltro, l’autore non si sofferma esclusivamente sui successi del modello cinese, ma ne discute anche le criticità, in vista dei possibili miglioramenti dal punto di vista dell’interesse collettivo. Infatti, sebbene la stampa occidentale sostenga l’opposto, il dibattito scientifico e politico cinese è sempre stato molto aperto ed animato.
Non essendo possibile riassumere i contenuti di un lavoro così ampio, mi limito ad una questione centrale nel dibattito sulla Cina: quella sul rapporto tra Stato e mercato. Il volume ne tratta nel quinto capitolo, un “libro nel libro” che si sviluppa per quasi settanta pagine.
La teoria proposta da Cheng Enfu distingue due grandi opposizioni economiche:
a) tra economia libera e pianificata;
b) tra economia di prodotti e di merci.
Quest’ultima opposizione è di derivazione marxiana: si ha un’economia di merci quando i prodotti del lavoro assumono la forma del valore. Sono possibili, dunque, quattro tipi di economie:
- libera economia di prodotti;
- libera economia di merci;
- economia pianificata di merci;
- economia pianificata di prodotti.
Non si tratta tanto di una tipologia, quanto piuttosto di un tentativo di porre i diversi sistemi economici in un ordine di sviluppo storico. Le economie capitaliste, in questo senso, sarebbero ferme alla fase II, mentre quelle socialiste si troverebbero nella fase III e mirerebbero, come obiettivo politico, a realizzare la fase IV. All’interno di questa suddivisione, poi, Cheng Enfu introduce ulteriori articolazioni per rendere conto dell’evoluzione interna dell’economia socialista, sulle quali non mi soffermo per ragioni di spazio.
In questo quadro, la Cina attuale è descritta come un organismo vitale, contraddistinto da un flusso di informazioni che vanno dal centro alla periferia e che retroagiscono dalla periferia al centro. Il primo flusso è costituito dal piano quinquennale e dagli indirizzi politici delle scelte economiche effettuate dallo Stato. La sua funzione è quella di realizzare gli interessi pubblici. Tuttavia, in un sistema socialista, questa tutela assume alcune sfumature importanti: nel nome degli interessi pubblici, infatti, i governi locali violano i diritti dei privati; aziende statali si appropriano indebitamente di proprietà pubbliche; le imprese statali richiedono inoltre controllo e vigilanza in casi di inefficienza. Interessi pubblici e privati sono, in quest’ottica, inestricabilmente legati. D’altronde, come scrive l’autore, il sistema socialista considera sacra ed inviolabile la proprietà pubblica, al contrario di quello capitalista. L’obiettivo generale della regolazione è di carattere etico.
Il secondo flusso proviene dal mercato, cui è affidata la funzione di allocazione delle risorse. Si tratta pertanto di un duplice sistema di regolazione, statale e di mercato, le cui componenti interagiscono tra loro con funzioni e velocità differenti. Entrambe hanno potenzialità e limiti: il mercato non è in grado di conseguire gli obiettivi politici generali che ispirano la pianificazione macroeconomica, non è efficace in settori, come quelli delle infrastrutture, in cui occorrono grandi investimenti a lungo termine prima di ottenere risultati, ha costi elevati in termini della necessità di intervenire per prevenire la formazione di monopoli, disoccupazione, inflazione, anomalie nella distribuzione e scelte irrazionali di consumo. Lasciato a se stesso, il mercato produce disuguaglianza e crisi economiche. D’altro canto, la regolazione dello Stato ha altri svantaggi: rischia di porsi obiettivi soggettivi, di generare frizioni tra i diversi obiettivi, di essere disapplicata da una burocrazia poco incentivata o di generare contromisure da parte delle aziende. D’altronde, solo la regolazione pubblica sembra essere in grado di svolgere alcune funzioni:
- al livello macroeconomico, realizzare obiettivi sociali quali istruzione, cultura, salute, preservazione dell’ambiente;
- al livello meso-, risolvere il problema degli squilibri regionali;
- al livello microeconomico, effettuare una funzione di controllo legale;
Idealmente, le due regolazioni dovrebbero compensarsi a vicenda; in pratica, tuttavia, la loro integrazione armoniosa rimane il problema politico principale della direzione economica socialista, ed è oggetto di analisi scientifiche e sperimentazioni politiche.
L’autore paragona ciascun mercato ad una cellula, e la struttura spaziotemporale del sistema socialista al sistema circolatorio. Quest’ultimo viene descritto secondo diversi punti di vista a seconda che si vogliano descrivere oggetti e soggetti del mercato, spazi e tempi. Qui, trattandosi di una recensione, ricordo solo le distinzioni che a parer mio caratterizzano la teoria economica del socialismo di mercato.
Un primo punto di vista è quello oggettivo: l’autore distingue, con Marx, un mercato delle merci (mezzi di produzione e beni di consumo) e un mercato dei fattori produttivi (mezzi di produzione, capitale, lavoro, tecnologia e mercato fondiario). Non stupirà il fatto che i mezzi di produzione ricorrano due volte: è noto che, per Marx, il lavoro è contemporaneamente una merce e un fattore della produzione. Ciò costituisce una delle contraddizioni più profonde del mercato, cui evidentemente il sistema cinese non ha tuttora posto rimedio, anzi: proprio l’aver ignorato questo fatto è da alcuni autori cinesi considerato una delle ragioni del fallimento dell’economia dell’Unione sovietica.
Un secondo punto di vista è quello dei soggetti del mercato. Mi sembra interessante il fatto che, accanto a famiglie e imprese, il modello riconosca un ruolo ai governi; inoltre, a seconda del peso del diritto privato e di quello pubblico, l’autore distingue tra unità economiche statali, collettive, cooperative, lavoratori autonomi, proprietari privati, investitori stranieri, società per azioni, imprese di leasing e appaltatrici. Non è che tutta questa ricchezza e articolazione non si trovi nell’economia capitalista; piuttosto, il problema è che il punto di vista liberista tende a liquidare ideologicamente alcune possibilità come “cause di rigidità del mercato” da eliminare; l’economia socialista, al contrario, non solo prende atto, realisticamente, della ricchezza che si squaderna nell’universo economico, ma ne fa un elemento di studio e un punto di forza.
Quanto alla struttura spaziale, vi sono mercati regionali, nazionali e internazionali. Qui una criticità importante, tipica del sistema cinese, è la presenza di un duplice mercato regionale, amministrativo ed economico, i quali possono entrare in conflitto. Il primo può infatti creare un blocco nei confronti del secondo e rallentare l’obiettivo di stabilire un mercato nazionale. Una seconda criticità dipende dall’integrazione tra mercato nazionale e internazionale, in cui opera la legge del valore marxiana, ponendo un problema economico e un insieme di vincoli al sistema nazionale.
Un commento a tutto questo. Il marxismo, come aveva già notato Domenico Losurdo, è stato sviluppato in Cina per progettare e realizzare strumenti di governo dell’economia, e non solo come teoria critica del capitalismo, come in Occidente. Questo non riguarda solo categorie marxiane, ma anche la logica, il metodo di indagine del reale, ovvero la dialettica. Questa lezione deve ancora essere appresa dai neomarxisti occidentali, i quali mostrano scarsissimo interesse verso la ricerca cinese e mantengono un atteggiamento liquidatorio.
In secondo luogo, mi pare si possa dire che il marxismo è integrato, senza snaturarlo, con nozioni che provengono dalla cibernetica, non solo dal punto di vista metaforico (mercati monomeri, sistema circolatorio) ma anche da un punto di vista tecnico (“sistema di regolazione”, “strutture dissipative”, “frizioni”).
L’approccio cinese all’economia è realista e progettuale. Realista, perché, come si è visto, non tenta di eliminare alcune strutture economiche a favore di altre per motivazioni ideologiche, come accade nel capitalismo quando si privatizza nel nome di una supposta maggiore efficienza del privato; progettuale, perché l’economia tende a darsi dei fini di progresso collettivo. Tra gli altri, il superamento del socialismo di mercato stesso e la fine della mercificazione. La ricerca, in questo ambito, non si limita dunque ad un perfezionamento del meccanismo di mercato, ma anche a un potenziamento dell’economia statale e delle istituzioni politiche perché possa realizzare interessi pubblici, sviluppo e benessere.
I liberali possono rimanere inorriditi dal fatto che l’economia cinese si pone obiettivi etici. Lo Stato etico è da sempre la bestia nera dei liberali. La mia opinione è che la condanna dello Stato etico sia ideologica: anche gli Stati occidentali sono “etici” e non potrebbero non esserlo, nella misura in cui possiedono un sistema giuridico. L’etica che si condanna è quella altrui. D’altronde, vorrei ricordare che Adam Smith era un filosofo, professore di filosofia morale e collaboratore di Hume. La pretesa che l’economia non abbia presupposti filosofici è, in realtà, del tutto campata in aria. Come filosofo, tendo forse a esagerare e a vedere nella Cina una sorta di repubblica di filosofi; d’altronde, nella cultura cinese il confucianesimo ha della politica un concetto molto simile.
Una questione importante, per il futuro dell’economia cinese e di quella mondiale, è l’integrazione dei diversi mercati regionali della Cina e delle regioni economiche a statuto speciale per la formazione di un unico mercato nazionale: come si evince dal volume, l’obiettivo non è stato ancora raggiunto. Questo significa che le potenzialità di crescita sono notevoli. Il bisogno di una maggior integrazione non deve sembrare un sintomo di sottosviluppo: si pensi ad esempio alle difficoltà che l’Unione europea mostra nel realizzare simili obiettivi di sistema, e del prevalere sistematico, in quest’ambito, degli interessi di Stati-chiave quali Francia e Germania rispetto agli ideali europeisti che in teoria animavano il progetto al suo varo.
Tutto questo ci porta alla questione fondamentale: quello Cinese si può ancora chiamare “socialismo”? La risposta dell’autore è affermativa: “nell’economia socialista, a differenza della situazione del sistema capitalista, il ruolo dell’economia statale non è semplicemente quello di operare in settori in cui le imprese private non sono disposte a investire, o di porre rimedio alle carenze delle imprese private e dei meccanismi di mercato, ma di realizzare uno sviluppo sostenuto, stabile e coordinato dell’economia nazionale e di consolidare e migliorare il sistema socialista”.
Come ricorda Vladimiro Giacché nell’introduzione, Cheng Enfu propone una concezione “olistica” del marxismo, che va studiato “nel suo insieme”, al fine di “correggere le carenze dei precedenti studi di argomenti isolati e approfondire la nostra comprensione”. Se, da un lato, tale concezione non riduce il marxismo a un pragmatismo empirico funzionale solo a giustificare le scelte politiche del momento, non intende nemmeno trasformarlo in un corpus dogmatico di scritti da citare. È forse questo spirito, realmente scientifico perché volto alla ricerca e all’innovazione teorica, il segreto del successo del modello economico del socialismo di mercato: il fatto che in esso sia inscritto anche il proprio auto-superamento.
Recensione di Francesco Galofaro al volume Cheng Enfu – Dialettica dell’economia cinese. L’aspirazione originale della Riforma