di Guglielmo Forges Davanzati*
Febbraio 2019
1 – Introduzione
Le politiche economiche messe in atto in Italia negli ultimi anni, in piena coerenza con quanto suggerito dalla commissione europea e con quanto realizzato in altri Paesi europei, si fondano essenzialmente su due assi: consolidamento fiscale e riforme strutturali. Il consolidamento fiscale viene raggiunto attraverso compressioni di spesa pubblica e aumento dell’onere fiscale, con riduzione, in particolare, della spesa sociale e per servizi di welfare e con aumento della tassazione – peraltro sempre meno progressiva – soprattutto a danno dei lavoratori. Le c.d. riforme strutturali riguardano i processi di privatizzazione e liberalizzazione e, soprattutto, ulteriori misure di precarizzazione del lavoro.
L’obiettivo di questa nota è (i) dar conto del fallimento di queste misure in relazione all’obiettivo dichiarato di generare ripresa della crescita economica e aumento del tasso di occupazione; (ii) articolare la proposta di un maggior intervento pubblico finalizzato a far diventare lo Stato occupatore e innovatore di prima istanza. Si tratta di una proposta tratta dalla tradizione teorica postkeynesiana (Minsky, in particolare) e ripresa nei tempi più recenti dagli studiosi della modern money theory. Su quest’ultimo aspetto, verrà articolata una critica ‘simpatetica’, basata sulla convinzione in base alla quale lo Stato, in un assetto capitalistico, non è un attore ‘neutrale’ rispetto ai rapporti di forza esistenti e verificati nel mercato del lavoro. Tutt’altro. Le politiche economiche risentono profondamente del conflitto capitale-lavoro (incluse le rendite finanziarie) e dei conflitti intercapitalistici. In tal senso, la proposta in oggetto, più che essere criticata sul piano ‘tecnico’ (possibili effetti inflazionistici, eventuale aumento del debito pubblico), dovrebbe tener conto della natura intrinsecamente di classe delle scelte di politica economica.
L’esposizione è organizzata come segue. Il par. 2 dà conto del fallimento delle politiche di consolidamento fiscale e di precarizzazione del lavoro, con particolare riferimento al caso italiano. Nel par. 3 si discute la proposta dello Stato come datore di lavoro e innovatore di prima istanza e nel par. 4 si forniscono alcune considerazioni conclusive.
2 – Il fallimento della moderazione salariale in Italia
Il combinato di politiche di austerità (ora denominate misure di “consolidamento fiscale”) e precarizzazione del lavoro, secondo la Commissione europea e i Governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni, dovrebbe garantire la ripresa della crescita economica attraverso l’aumento delle esportazioni. Il consolidamento fiscale viene perseguito con l’obiettivo dichiarato di ridurre il rapporto debito pubblico/Pil, mentre la precarizzazione del lavoro viene attuata con l’obiettivo dichiarato di accrescere l’occupazione. Le due misure – ci si aspetta – dovrebbero inoltre migliorare il saldo delle partite correnti, mediante maggiore competitività delle esportazioni italiane.
Si ipotizza, cioè, che la moderazione salariale, derivante da minore spesa pubblica e maggiore precarietà del lavoro, riducendo i costi di produzione, ponga le imprese italiane nella condizione di essere più competitive (ovvero di poter vendere a prezzi più bassi) nei mercati internazionali. Anche le misure di defiscalizzazione rientrano in questa logica, dal momento che ci si attende che minori tasse sui profitti implichino minori costi per le imprese e, dunque, maggiore competitività nei mercati internazionali.
Si tratta di un’impostazione che si è rivelata del tutto fallimentare e che, a meno di non pensare che dia i suoi risultati nel lunghissimo periodo, andrebbe completamente ribaltata. Le basi teoriche sulle quali poggiano queste politiche sono estremamente fragili, per i seguenti motivi.
1) Le politiche di austerità, soprattutto se attuate in fasi recessive, determinano un aumento, non una riduzione, del rapporto debito pubblico/Pil, che è infatti costantemente aumentato (dal 120% del 2010 al 133% del 2018). Ciò a ragione del fatto che la riduzione della spesa pubblica riduce il tasso di crescita, riducendo il denominatore di quel rapporto più di quanto ne riduca il numeratore. Questo effetto è tanto maggiore quanto maggiore è il valore del moltiplicatore fiscale, stimato, dal Fondo Monetario Internazionale, a 1.5. In tal senso, il consolidamento fiscale è prima ancora che un errore di politica economica un errore propriamente un errore tecnico, basato su una stima sbagliata degli effetti moltiplicativi di variazioni della spesa pubblica
2) Le politiche di precarizzazione del lavoro non accrescono l’occupazione, anzi tendono a generare aumenti del tasso di disoccupazione. Ciò fondamentalmente per due ragioni. In primo luogo, la precarizzazione del lavoro accrescere l’incertezza dei lavoratori in ordine al rinnovo del contratto e, dunque, incentiva risparmi precauzionali deprimendo consumi e domanda interna. In secondo luogo, la precarizzazione del lavoro, in quanto consente alle imprese di recuperare competitività attraverso misure di moderazione salariale, disincentiva le innovazioni, dunque il tasso di crescita della produttività del lavoro e, per conseguenza, dell’occupazione. In più, la precarizzazione del lavoro, in quanto genera moderazione salariale, contribuisce a generare deflazione; la deflazione accresce l’onere reale del servizio del debito pubblico e obbliga a maggiore tassazione. In un contesto nel quale le imprese sono mobili su scala internazionale e le banche sono, particolarmente nel caso italiano, creditrici dello Stato, l’unico soggetto tassabile (in quanto non mobile, né creditore) è il lavoro dipendente (ed eventualmente la piccola impresa).
3) La detassazione degli utili d’impresa non ha effetti significativi sugli investimenti, dal momento che questi dipendono fondamentalmente dalle aspettative imprenditoriali, le quali, a loro volta, sono fortemente condizionate dalle aspettative di crescita (e dunque, da ciò che ci si attende di poter vendere). Manovre fiscali restrittive, comprimendo i mercati di sbocco interni (quelli rilevanti per la gran parte delle imprese italiane), possono semmai peggiorare le aspettative e, dunque, generare riduzione degli investimenti. Peraltro, la detassazione degli utili d’impresa – in una condizione nella quale occorre generare avanzi primari – implica aumenti di tassazione sui redditi dei lavoratori, ovvero sui redditi di quei soggetti che esprimono la più alta propensione al consumo. Anche per questa ragione, detassare le imprese significa ridurne i mercati di sbocco, almeno quelli interni, con conseguente riduzione dei profitti e aumento delle insolvenze. Il problema si pone soprattutto per la riproposizione di queste misure nel tentativo di attrarre investimenti nel Mezzogiorno, attraverso la recente istituzione delle “zone economiche speciali”. In più, il tentativo di stimolare gli investimenti nel Mezzogiorno attraverso misure di incentivazione non tiene conto della modesta dinamica della domanda interna (le imprese investono se si attendono di poter vendere e ottenere ragionevoli margini di profitto; cosa che non accade se la domanda è bassa e in riduzione), della presenza di criminalità, del deficit di infrastrutture.
4) La moderazione salariale non accresce le esportazioni. L’ultimo Rapporto ISTAT certifica che il saldo delle partite correnti italiano è migliorato solo perché si sono ridotte le importazioni, a seguito della caduta della domanda interna, e che l’economia italiana è, ad oggi, una delle meno internazionalizzate fra le economie europee. Si registra anche che nonostante un seppur leggero aumento dei margini di profitto delle nostre imprese a partire dal 2014, gli investimenti privati continuano a essere in costante riduzione. Viene anche fatto rilevare che per parte delle nostre esportazioni (in particolare, l’agroalimentare e i beni di lusso), ciò che conta non è la competitività di prezzo (e dunque la compressione dei salari è inutile o controproducente, dal momento che comprime la domanda interna), la competitività basata sulla qualità o sul c.d. effetto Veblen, per il quale è semmai vero che al crescere del prezzo unitario aumenta il volume di merci esportate.
Si tratta, peraltro, di politiche attuate ormai da quasi un decennio, sempre con risultati fallimentari. Il fondamentale errore degli ultimi Governi sta appunto nell’aver usato le (poche) risorse disponibili nel peggiore dei modi possibili: decontribuzioni alle imprese e trasferimenti monetari alle famiglie (si pensi alla misura degli 80 euro del Governo Renzi). Misure che non impattano né sugli investimenti privati né sui consumi. Ma che, verosimilmente, e in una logica di brevissimo periodo, accrescono il consenso, salvo poi tornare al punto di partenza ma con meno risorse.
Con la massima schematizzazione, nel dibattito interno alla sinistra italiana (ed escludendo le opzioni del c.d. sovranismo di sinistra di abbandono dell’euro), sembra emergere una posizione sufficientemente condivisa. Si ritiene che, nelle condizioni istituzionali date, escludendo cioè opzioni di exit dall’Unione monetaria europea[1], occorrerebbe utilizzare lo spazio fiscale disponibile per maggiori investimenti pubblici che facciano crescere la domanda interna e la produttività del lavoro. Le risorse necessarie andrebbero reperite attraverso una più equa ripartizione del carico fiscale, ribaltando la logica fin qui seguita di detassazione dei redditi più elevati. Ripristinare maggiore progressività delle imposte (ovvero innalzare le aliquote fiscali sui redditi più alti, soprattutto se derivanti da rendite finanziarie o immobiliari), oltre a rispondere a un elementare criterio di equità, è una pre-condizione per accrescere le entrate. A ciò si aggiunge una radicale revisione delle misure di precarizzazione del lavoro. Una variante di questa misura fa riferimento alla possibilità di un intervento pubblico diretto nel mercato del lavoro, finalizzato a rendere lo Stato datore di lavoro di ultima istanza e innovatore di prima istanza. Quest’ultima proposta verrà discussa in quanto segue.
3 – Lo Stato come datore di lavoro di ultima istanza e come innovatore di prima istanza: il caso italiano
La proposta di Stato occupatore e innovatore di ultima istanza è motivata, sul piano fattuale e con riferimento all’Italia, da due considerazioni:
1) Il problema dell’economia italiana è essenzialmente, e sempre più, un problema di fragilità della struttura produttiva, che si traduce, da almeno un ventennio, in una drammatica caduta del tasso di crescita della produttività del lavoro. Le imprese italiane, e ancor più meridionali, sono, di norma, imprese di piccole dimensioni, poco innovative, poco esposte alla concorrenza internazionale, spesso a gestione familiare, con una specializzazione produttiva in settori ‘maturi’ e a bassa intensità tecnologica (agroalimentare, beni di lusso). La domanda di lavoro che esse esprimono è, nella gran parte dei casi, domanda di lavoro poco qualificato, a fronte della crescita dell’offerta di lavoro qualificata. La disoccupazione giovanile, che in Italia raggiunge il 40%, e in alcune aree supera il 60%, è in larga misura disoccupazione – o sottoccupazione – intellettuale. I Governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno provato a contrastarla, senza esito, depotenziando la qualità dell’offerta di lavoro, attraverso tagli massicci al sistema formativo (cfr. Forges Davanzati, 2018). In questo scenario, ha una sua razionalità l’ipotesi di un l’aumento dell’occupazione nel settore pubblico, finalizzata ad assorbire in primis la disoccupazione giovanile, soprattutto nella sua componente con più alta qualificazione. La ratio di questa proposta consiste nel mettere insieme la visione dello Stato occupatore con la visione dello Stato come innovatore – ovvero come soggetto che, in assenza di incrementi di produttività generati nel settore privato, si fa carico di produrre innovazioni attraverso l’assunzione di lavoratori altamente qualificati.
2) Contrariamente alla vulgata mediatica, l’intero settore pubblico italiano nelle due diverse ramificazioni è nei fatti il più sottodimensionato d’Europa.
Questa proposta – in acronimo ELR (Stato come employer of last resort) – è stato recentemente ripresa nel solco di una rivisitazione del pensiero di Minsky all’interno della cornice teorica della Modern Money Theory (MMT). La variante elaborata dai suoi sostenitori si presta a due considerazioni critiche:
- a) I teorici della MMT ritengono che la spesa pubblica sia o possa essere interamente monetizzata, assumendo che Stato e Banca centrale siano un settore ‘consolidato’ (Wray, 1998). Ciò che qui interessa preliminarmente discutere è se, nelle condizioni date, la proposta sia ragionevolmente prospettabile. Ad avviso di chi scrive, si tratta di un punto di criticità. Nella MMT si assume che il raggiungimento del pieno impiego sia possibile dal momento che lo Stato (inteso come un macro-agente consolidato con la Banca Centrale) può monetizzare la spesa senza alcun vincolo di scarsità, e far ciò in assenza di pressioni inflazionistiche. La principale criticità di questa impostazione è che la monetizzazione incontra vincoli politici (particolarmente, in questa fase storica, nell’Unione Monetaria Europea), che tali vincoli riflettono sia convinzioni di teoria economica sia interessi materiali, che non possono essere ignorati dal momento che riflettono i rapporti di classe esistenti.
- b) L’ipotesi implicita della proposta della MMT prescinde del tutto dai rapporti di forza fra capitale e lavoro. Occorre ricordare, a riguardo, la tesi di Kalecki, secondo la quale un’economia capitalistica è incompatibile con il mantenimento del pieno impiego (in quanto questa condizione renderebbe massimo il potere contrattuale dei lavoratori sia nel mercato del lavoro, sia soprattutto nella sfera politica).
La questione dell’individuazione dei canali di finanziamento per maggiore spesa pubblica è, in larga misura, un falso problema. L’individuazione delle c.d. “coperture’ attiene a un problema squisitamente politico, che rinvia a scelte appunto politiche sull’allocazione di risorse pubbliche fra usi alternativi. Per conseguenza, il reale problema che incontra la proposta dell’ELR riguarda il ribaltamento dei rapporti capitale-lavoro: un problema strutturale, non monetario (cfr. Kriesler, and Halevi, 2001). E, assumendone qui la fattibilità politica, nel caso italiano occorre riformularla coniugando la visione dello Stato come occupatore e dello Stato come innovatore di prima istanza.
L’ultima rilevazione OCSE ci informa che, mentre nel nostro Paese la pubblica amministrazione assorbe circa 3.400 lavoratori, in Francia e nel Regno Unito, Paesi con una popolazione e un Pil pro-capite di entità simile alla nostra, se ne contano rispettivamente 6.200 e 5800. Negli Stati Uniti – Paese tradizionalmente guardato come una vera economia di mercato – il numero di dipendenti pubblici è di circa il 25% superiore al nostro. Si può aggiungere che, in Italia, l’occupazione nel settore pubblico riguarda prevalentemente individui con elevata scolarizzazione. Si può anche rilevare che, come osservato fra gli altri da Dutt (2012), una condizione di piena occupazione favorisce la crescita della produttività del lavoro. Ciò a ragione del fatto che le imprese non sono messe nella condizione di competere comprimendo i salari e sono, per contro, ‘forzate’ a competere innovando. In tal senso, lo schema ELR potrebbe essere anche – e forse più utilmente – pensato per generare crescita economica anche dal lato dell’offerta, non solo quindi come programma finalizzato al pieno impiego. A ciò si può aggiungere che, seguendo la linea teorica dei proponenti lo schema ELR, la spesa pubblica è complementare alla spesa privata per investimenti: si tratta di una ‘complementarietà monetaria’, dal momento che l’aumento della spesa pubblica accresce i mercati di sbocco e rende conveniente l’attuazione di nuovi flussi di investimenti privati[2]. Conseguentemente, uno schema ELR potrebbe agire positivamente sul tasso di crescita della produttività del lavoro, sia per l’aumento degli investimenti pubblici che farebbe seguito a un aumento della spesa pubblica, sia a seguito del contenimento di fenomeni di obsolescenza intellettuale che si determinerebbero nel caso alternativo di disoccupazione, a maggior ragione se di lungo periodo. Un ulteriore vantaggio derivante dall’attuazione di uno schema ELR deriverebbe dal fatto che, in condizioni di piena occupazione, sarebbe estremamente difficile reclutare lavoratori nell’economia sommersa o, ancor più, nell’economia criminale. Questo argomento è particolarmente rilevante nel caso italiano, e ancor più meridionale, dal momento che la presenza del lavoro nero e dell’attività criminale è molto più diffusa rispetto agli altri Paesi dell’eurozona.
E’ anche rilevante, sebbene con una specificazione, l’argomento di Wray (1998) per il quale la disoccupazione ha elevati costi sociali, oltre che esistenziali. Per converso, l’essere occupati dovrebbe garantire migliori condizioni di vita, anche per l’aumento dell’autostima. Vero o plausibile, ma con la dovuta specificazione per la quale l’occupazione garantita dal settore pubblico deve essere gratificante, ovvero lo schema ELR non può limitarsi a individuare misure per l’aumento dell’occupazione ma anche per il miglioramento della qualità del lavoro.
In più, come mostrato in particolare da Massimo Florio (https://www.ripensarelasinistra.it/wp-content/uploads/2014/05/florio.pdf), lo schema ELR potrebbe utilmente ribaltare la linea di policy seguita in Italia – con la massima intensità fra i Paesi dell’Eurozona – finalizzata ad accentuare le privatizzazioni. Le privatizzazioni, come mostra un’inequivocabile evidenza empirica, generano effetti redistributivi soprattutto a ragione dell’aumento delle tariffe – e della conseguente caduta dei salari reali – e dell’eccezionale aumento degli stipendi dei manager nel passaggio dalla proprietà pubblica alla proprietà privata. Generano anche minore crescita dal momento che, in moltissimi casi, Italia non esclusa, le imprese privatizzate sono imprese orientate alla speculazione finanziaria che, come da più parti documentato, è un rilevante freno agli investimenti reali.
Le inefficienze del settore pubblico, come gli sprechi nel settore privato, sono ovunque. La retorica del dipendente pubblico fannullone resta tale, fa danni al Paese, impedisce un dibattito aperto su come l’intervento pubblico in economia può contribuire alla crescita economica e all’aumento dell’occupazione, soprattutto giovanile e soprattutto di alta qualità. Al netto di singoli casi di comportamenti eticamente censurabili e comunque punibili (che, nella vulgata mediatica italiana, si riferisce ai c.d. “furbetti del cartellino”), stando alla normativa vigente, occorre considerare i possibili effetti macroeconomici che tali misure verosimilmente produrranno. E occorre anche preliminarmente considerare che la normativa vigente – si pensi al c.d. decreto Brunetta – già contiene tutte le misure necessarie per consentire il licenziamento di dipendenti pubblici, in un quadro normativo nel quale il regime di sanzionamento dell’assenteismo è diverso fra settore privato e settore pubblico. Nel settore privato, la disciplina sulle assenze per malattia prevede che, per i primi tre giorni di assenza continuativa, l’indennità di malattia è a carico del datore di lavoro, con una percentuale di copertura definita dal contratto nazionale. A partire dal quarto giorno, l’Inps versa un’indennità non inferiore al 50 per cento della retribuzione, mentre la parte rimanente viene integrata dal datore di lavoro.
Nel settore pubblico, per contro, è prevista la perdita di ogni componente accessoria del salario (circa il 20 per cento della retribuzione in media) per i primi dieci giorni di assenza continuativa per malattia, e le visite fiscali – effettuabili in un intervallo di sette ore al giorno – sono quasi il doppio di quelle registrate nel settore privato.
Non è un mistero che i provvedimenti che, in Italia, sono stati posti in essere per monitorare il rendimento dei lavoratori pubblici rispondono fondamentalmente all’obiettivo del ‘dimagrimento’ del settore pubblico, che viene diffusamente giustificato con due ordini di ragioni: il settore pubblico italiano è sovradimensionato e assume lavoratori scarsamente produttivi. Si tratta di due argomenti che non reggono alla prova dei fatti.
Per il primo aspetto, si consideri che, a partire dalla seconda metà degli anni ’90, la spesa corrente ha cominciato a contrarsi, riducendosi, dal 1993 al 1994, da 896.000 miliardi a circa 894.000 miliardi. La spesa complessiva delle Amministrazioni pubbliche diminuisce dal 51,7% al 50,8% del Pil nel 1994 e, nel 1995, continua la riduzione dell’incidenza della spesa sul Pil, che raggiunge il 49,2%. Interessante osservare che, nel confronto internazionale con i principali Paesi OCSE, dal 1961 al 1980 (periodo nel quale la spesa pubblica in Italia è stata in continua crescita), lo Stato italiano ha impegnato risorse pubbliche in rapporto al Pil sistematicamente inferiori alla media dei Paesi industrializzati: a titolo puramente esemplificativo, nel 1980, il rapporto spesa corrente su Pil, in Italia, era pari al 41% a fronte del 41.2% della Germania. Negli stessi anni, l’Italia ha sperimentato la più rilevante contrazione della domanda interna, nel confronto con i principali Paesi dell’eurozona; contrazione prevalentemente imputabile alla riduzione della spesa pubblica e, soprattutto negli ultimi anni, all’aumento della pressione fiscale.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, si rileva, su fonte INPS, che, nel confronto internazionale, l’Italia è uno dei paesi caratterizzati dai più bassi livelli di assenza per malattia, ma con minore incidenza nel settore pubblico. La bassa efficienza del settore pubblico italiano non sembra essere quindi dovuta alla scarsa motivazione al lavoro dei suoi dipendenti, ma piuttosto alla bassissima dotazione di capitale che ne caratterizza i processi di produzione di beni e servizi. A titolo puramente indicativo, si può considerare che molte amministrazioni pubbliche sono quasi del tutto sprovviste di sistemi informatici. Vi è poi da considerare che, per il sostanziale blocco del turnover, i lavoratori occupati nel settore pubblico sono, in media, individui di età superiore ai quaranta anni, dunque, per molte mansioni, meno produttivi di quanto potrebbero essere lavoratori più giovani.
L’economia italiana, per contro, avrebbe bisogno – nei limiti dello spazio fiscale disponibile – di investimenti pubblici in ricerca, che attivino un percorso potenzialmente virtuoso di crescita trainata da incrementi di domanda, nel breve periodo, e da innovazioni, nel lungo periodo. E’ opportuno ricordare che la spesa pubblica e privata per ricerca e sviluppo in Italia è la più bassa dell’Eurozona. Ed è sempre opportuno ricordare che, in una condizione nella quale le imprese non innovano, è bene che sia lo Stato a diventare innovatore di prima istanza. In altri termini, come ampiamente mostrato in letteratura, le innovazioni nel settore privato sono sempre (e sono storicamente sempre state) precedute da innovazioni nel settore pubblico: si pensi ai computer che quotidianamente utilizziamo, i cui dispositivi tecnici originano, in ultima analisi, da investimenti pubblici nel settore informatico che possono farsi risalire alla seconda guerra mondiale e agli ingenti finanziamenti erogati, in quella fase, all’apparato bellico negli Stati Uniti (cfr. Mazzucato, 2014). Si può aggiungere che l’Italia vive il paradosso di un elevato numero di laureati sottoccupati (o emigrati), dunque con un tasso di rendimento individuale e aggregato fra i più bassi d’Europa, e i minori sbocchi occupazionali in attività di ricerca e sviluppo finanziate dal settore pubblico. Da questa prospettiva, il vero mismatch non è fra domanda e offerta di lavoro nel settore privato, ma è il mancato incontro fra offerta di lavoro qualificato e carenza di domanda di lavoro qualificato nel settore pubblico (per il blocco del turnover e l’assenza di una strategia di investimenti pubblici nell’ambito della ricerca scientifica).
Vi è ovviamente un nesso fra calo degli investimenti pubblici e privati in ricerca e sviluppo e aumento della precarizzazione del lavoro, soprattutto nel segmento della forza-lavoro altamente qualificata. L’aumento della sottoccupazione intellettuale e delle migrazioni intellettuali dipende fondamentalmente dall’incapacità del settore privato di assorbire forza-lavoro altamente qualificata e la risposta di policy degli ultimi anni – definanziare le Università per dequalificare l’offerta di lavoro – appare chiaramente inadeguata per far fronte al problema (cfr. Bellofiore e Vertova, 2018). Queste misure sono concepibili sono assumendo che l’operatore pubblico non possa intervenire per modificare la struttura produttiva
4 – Considerazioni conclusive
In questo saggio, si è mostrato come le politiche di consolidamento fiscale combinante con le c.d. riforme strutturali siano state, e continuino a essere, fallimentari rispetto agli obiettivi dichiaratamente perseguiti (ripresa della crescita, aumento dell’occupazione). Si è mostrato, successivamente, come la proposta di radicale revisione di questa linea di politica economica – basata sull’idea che lo Stato possa agire come datore di lavoro di ultima istanza – sebbene sia, in linea di principio, decisamente migliorativa rispetto allo status quo, presenta, con particolare riferimento all’Italia, alcune criticità. Si è infine mostrato come un programma di Stato come innovatore di prima istanza, attuato mediante un significativo incremento degli investimenti pubblici in R&D combinato con lo sblocco del turnover nella pubblica amministrazione, possa contrastare il continuo aumento della disoccupazione giovanile, in particolare, per la componente con la più alta qualificazione.
Riferimenti bibliografici
Bellofiore, R. e Vertova, G. (2018). Ai confini della docenza. Per la critica dell’Università. Bergamo: Academia University Press.
Dutt, A.K. (2012). Distributional dynamics in Post-Keynesian growth models, “Journal of PostKeynesian Economics”, 34(3), Spring: 431-51
Forges Davanzati, G. (2016). Credit supply, credit demand and unemployment in the mode of Augusto Graziani, “Review of Keynesian Economics”, September, pp. 264-278
Forges Davanzati, G. (2017). L’irrilevanza della teoria economica sull’abbandono dell’euro, www.micromega.net, giugno.
Forges Davanzati, G (2018). La ristrutturazione del capitalismo italiano, la nuova Università di classe e il ruolo della valutazione e le condizioni di lavoro in Università, in R. Bellofiore e G. Vertova, Ai limiti della docenza, Academia University Press, Torino, p.44-61
Kriesler, P. and Halevi, J. (2001). Political aspects of buffer stock employment, “Centre for Applied Economic Research” – The University of New South Wales, w.p.2.
Mazzucato, M. (2014). Lo Stato innovatore. Roma-Bari: Laterza.
Parguez, A. (2008). Money creation, employment and economic stability: The monetary theory of unemployment and inflation, “Panoecnomicus, 1, 2008, p.50.
Wray, R. (1998). Understanding Modern Money: The Key to Full Employment and Price Stability. Cheltenham, UK: Edward Elgar.
* Università del Salento – Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’Uomo e University of Cambridge (UK) – Department of Land Economy. Email: guglielmo.forges@unisalento.it
[1] Le motivazioni di questa scelta sono numerose e non è questa la sede per discuterle. Sia consentito rinviare a http://temi.repubblica.it/micromega-online/come-la-lega-ci-porterebbe-fuori-dall%E2%80%99euro-e-con-quali-conseguenze/ e a http://temi.repubblica.it/micromega-online/i-venti-anni-dell%E2%80%99euro-un-bilancio/
[2] Come mostrato in Forges Davanzati (2016), contrariamente a ciò che accade nel modello IS-LM, se si accoglie l’ipotesi per la quale la spesa pubblica agisce da àncora agli investimenti privati, l’aumento della spesa pubblica – in quanto accresce i fondi interni delle imprese e, dunque, il loro potere contrattuale nei confronti delle banche, tende ad associarsi a una riduzione del tasso di interesse, che potrebbe stimolare ulteriori investimenti privati. Come osserva Parguez (2008, p.50): “a full employment policy automatically pushes for increased investment and therefore for the embodiment of more and more technology-innovations in the stock of equipment. It is tantamount to the proposition that a full employment policy sustains the growth of productivity in the long run”.