Costruiamo comitati unitari contro l’autonomia differenziata

Sul nostro Paese pende la spada di Damocle delle intese sulla autonomia rafforzata delle regioni del Nord. È un profondo e deleterio rivolgimento della forma di Stato della Repubblica nata dalla Resistenza, che potrebbe essere realizzato immediatamente con un semplice passaggio parlamentare, senza possibilità di referendum confermativo, poiché formalmente non si presenta come una riforma costituzionale.
È fondamentale sviluppare il più ampio movimento unitario di massa contro l’autonomia differenziata, costituendo comitati radicati nel territorio che si coordinino a livello nazionale.
Riteniamo utile riportare qui il preambolo dello statuto del “Comitato per l’unità della Repubblica di Terra di Bari”, che si propone “valutando le attuali intese tra Governo e Regioni Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna – che accentuano il divario tra le diverse aree del Paese e tra cittadini – come fortemente lesive e diametralmente opposte ai principi fondanti della Costituzione”, di “contrastare, con tutti i mezzi democratici e di lotta politica previsti dalla Costituzione repubblicana (iniziative di conoscenza, approfondimento, propaganda nei luoghi di lavoro, nelle scuole e università, nelle piazze e nelle strade e in ogni luogo di aggregazione dei cittadini) l’approvazione da parte delle Camere delle attuali intese con le regioni del Nord sull’autonomia rafforzata e il regionalismo differenziato” e “contrastare qualsiasi altro disegno di legge e atto politico che miri a riproporre in futuro, anche in forme e modi diversi, analoghe misure”.
Nella stesura del Preambolo gli estensori hanno fatto ampiamente ricorso al recentissimo libro di Massimo Villone: Italia, divisa e diseguale. Regionalismo differenziato o secessione occulta?, Editoriale Scientifica srl, Napoli, 2019.

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La Costituzione della Repubblica italiana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948 dopo un anno e mezzo di lavori dell’Assemblea Costituente, è a fondamento del nuovo Stato unitario italiano, nato dalla Resistenza antifascista diretta dal Comitato di Liberazione Nazionale. Alla base di essa vi sono principi e valori alla cui elaborazione concorsero, in una avanzata sintesi organica, le culture di ispirazione marxista, cristiana e liberale in cui si riconoscevano i padri costituenti.
A 70 anni e più di distanza dall’entrata in vigore della Costituzione affermiamo con forza che i principi e valori che ne ispirarono l’intero impianto sono – nelle nuove condizioni di un mondo conflittualmente globalizzato – più vivi e vitali che mai, sono la bussola fondamentale che deve orientare il pensiero e l’azione politica, culturale, morale della Repubblica, sono la base essenziale su cui si costruisce l’unità della nazione e il suo progresso civile, sociale, economico, culturale.
La prima parte della Costituzione, I principi fondamentali, orienta e supporta i titoli successivi, che da essa dipendono e ad essa devono conformarsi. I principi fondamentali costituiscono un tutto organico: non se ne può estrapolare uno senza tener conto della totalità.
Così l’articolo 5 – “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento” – va coordinato organicamente sia con l’articolo 2, fondato sul principio personalistico – “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” –, che con l’articolo 3, comma 2: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Autonomia e decentramento amministrativi non possono attuarsi a discapito dell’azione di rimozione degli ostacoli che limitano di fatto l’eguaglianza dei cittadini. Il principio posto dall’articolo 3 implica un’azione della Repubblica per contrastare lo sviluppo ineguale tra le diverse aree del paese, per superare l’arretratezza di alcune di esse, derivante sia dalla diversa storia che nei lunghi secoli precedenti l’unità nazionale le ha caratterizzate, sia dalle modalità con cui si è costituito e organizzato economicamente e socialmente il Regno d’Italia (dal 1861), che ha di fatto utilizzato il Mezzogiorno come serbatoio di risorse – uomini e mezzi – per lo sviluppo delle aree settentrionali, accentuando il divario tra Nord e Sud. In radicale rottura con lo Stato precedente, la Costituzione repubblicana nei suoi principi fondamentali si pone il compito di risolvere la questione meridionale (cfr. art. 119, 3° co. Cost. ante riforma 2001). Autonomia e decentramento amministrativo posti dall’articolo 5 sono al servizio dell’azione di superamento del divario tra diverse aree del Paese. Il principio personalistico alla base della Costituzione repubblicana, ponendo la centralità della persona umana, comporta l’eguaglianza nei diritti, a prescindere dal luogo in cui il cittadino risieda.
È interesse precipuo di tutta la nazione, e non di una sola parte di essa, operare in direzione di uno sviluppo equilibrato e sostenibile superando il divario tra le diverse aree del paese. In funzione di questo obiettivo devono muoversi tutti i cittadini che si riconoscono nei principi della Costituzione repubblicana.
Nell’ultimo trentennio la Costituzione repubblicana è stata sottoposta a durissimi attacchi, alcuni dei quali, pur non riuscendo a cambiare la prima parte dei Principi fondamentali, hanno prodotto serie incrinature nel suo impianto. A partire dagli ultimi anni 80 la “Repubblica una e indivisibile” è stata messa in discussione da una formazione politica – La Lega Nord per l’indipendenza della Padania – che a più riprese ha rivendicato la secessione delle regioni del Nord (cfr. l’art. 1 dello statuto della Lega di Salvini, approvato il 12 ottobre 2015, che assume come finalità “il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana”).
Pur non riuscendo a conseguire questo obiettivo, essa è riuscita ad ottenere – grazie ad un misto di complicità, arrendevolezza e insipienza delle altre forze politiche, indegne eredi dei padri costituenti – una serie di risposte politiche e istituzionali realizzate nel corso della XIII legislatura: federalismo amministrativo con le “leggi Bassanini”, l’elezione diretta dei presidenti delle regioni, e, soprattutto, la pesante revisione, gravida di negative conseguenze, del Titolo V della Costituzione, che modifica il rapporto tra Regioni e Stato, lasciando a quest’ultimo una potestà legislativa esclusiva in un limitato elenco di materie, mentre la potestà legislativa concorrente si gonfia a dismisura e si crea una nuova categoria di potestà legislativa regionale residuale ed esclusiva. Tale revisione reinterpreta il concetto di interesse nazionale; cancella i controlli preventivi sugli atti di regioni ed enti locali; prevede livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali affidati alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, così introducendo implicitamente in Costituzione il concetto di una diversità costituzionalmente compatibile tra ciò che è essenziale e ciò che essenziale non è ed è pertanto rimesso alla legge di ciascuna regione. Elimina il richiamo al Mezzogiorno e alle Isole contenuto del testo originario del 1948. Infine, il nuovo art. 116 introduce forme particolari e ulteriori di autonomia a richiesta.
Approvata la riforma del Titolo V, partono ben presto i tentativi di attivare il percorso di cui all’art. 116. La Toscana nel 2003, la Lombardia e il Veneto nel 2006-2007, il Piemonte nel 2008 adottano atti prodromici alla stipula di un’intesa. Successivamente, la legge 147/2013, art. 1 co. 571 definisce la parte iniziale del procedimento, disponendo che la proposta della regione sia presentata al presidente del consiglio e al ministro per gli affari regionali, impegnando tassativamente il governo ad attivarsi sulla proposta entro sessanta giorni dalla richiesta.
In questo nuovo contesto normativo la Regione Veneto approva le leggi 15/2014 (Referendum consultivo sull’autonomia del Veneto) e 16/2014 (Indizione del referendum consultivo sull’indipendenza del Veneto). La Corte costituzionale, nel ritenere legittimo – dopo aver censurato tutti gli altri – il quesito referendario che chiede “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” per la Regione Veneto, non coglie l’incostituzionalità di un referendum che coinvolge scelte tali da modificare profondamente nella sostanza, anche se non nella forma, l’assetto dei rapporti Stato-Regioni definito nella Costituzione. Svoltosi il 22 ottobre 2017 il referendum, il Consiglio regionale del Veneto approva una proposta di legge statale ai sensi dell’art. 121 Cost. che vorrebbe riconoscere alla regione il 90% del gettito Irpef, Ires e Iva. Anche la Lombardia svolge un referendum, in simultanea con il Veneto, mentre l’Emilia-Romagna avvia il percorso il 3 ottobre 2017 con una risoluzione del Consiglio regionale, che impegna la giunta ad avviare il negoziato con il governo ai fini dell’intesa di cui all’art. 116, co. 3.
Il 28 febbraio 2018, qualche giorno prima delle elezioni politiche generali, il governo Gentiloni, in carica solo per gli affari correnti, in violazione di una prassi consolidata che richiede un governo nella pienezza dei poteri per affrontare questioni non di ordinaria amministrazione, invece che sospendere la trattativa al momento dello scioglimento delle Camere e rinviarla per il prosieguo all’approvazione del voto di fiducia al governo in carica da parte delle camere di nuova elezione, firma con i presidenti delle regioni richiedenti il regionalismo differenziato un irrituale “pre-accordo” di dubbia legittimità. Negli accordi si stipula anche che per la ristrettezza dei tempi ci si limita solo ad alcune delle materie di interesse: tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, la tutela della salute, l’istruzione, la tutela del lavoro e i rapporti internazionali e con l’Unione europea. Ma ci si riserva di estendere successivamente il negoziato ad altre.
Si stabilisce una quanto mai anomala e ingiustificabile – trattandosi di materia posta a tutela delle minoranze costituzionalmente protette – analogia nel percorso di approvazione delle intese da parte delle camere secondo la prassi adottata per quelle con i culti acattolici ex art. 8 della Costituzione, per cui le intese sarebbero inemendabili e oggetto di mera ratifica da parte dei parlamentari. È evidente l’esproprio di fatto delle prerogative parlamentari.
Nei tre pre-accordi stipulati si considera anche la questione delicatissima delle risorse. Non si fissano percentuali, ma si usa una formula che è comunque volta a garantire che i soldi del Nord rimangano al Nord. Si prevede infatti il principio della compartecipazione ai tributi erariali; il superamento della spesa storica e la determinazione di fabbisogni standard riferiti, oltre che alla popolazione, al gettito dei tributi maturati nel territorio, e la garanzia di un livello dei servizi mai suscettibile di diminuzione. Si prevede una riserva sui fondi infrastrutturali. Si concorda che la assegnazione delle risorse sia affidata a una commissione paritetica Stato-Regione, e sia dunque sottratta a un percorso parlamentare. Si tratta di una vera e propria “secessione dei ricchi”, con la creazione di steccati insuperabili tra cittadini di serie A e di serie B e la violazione di principi fondamentali di eguaglianza e di solidarietà.
La firma dei pre-accordi rappresenta l’esito di un processo da tempo in atto. Come già detto, la riforma del 2001, pur cancellando il richiamo al Mezzogiorno e alle isole e pur introducendo con i livelli essenziali delle prestazioni (LEP) il principio di una diversità costituzionalmente compatibile, disegnava comunque un quadro in cui esistono supporti per l’unità del paese: perequazione, solidarietà territoriale, finanziamento integrale delle funzioni per regioni ed enti locali (art. 119). Un disegno poi integrato dalla legge 42/2009 sul federalismo fiscale, che implementa i concetti di fabbisogni e costi standard. Ma il quadro descritto rimane ancora lettera morta.
Non sono definiti i LEP, insieme ai costi e fabbisogni standard, e nella complessiva inattuazione del quadro normativo viene richiesto con forza dalle regioni del Nord il recupero del cosiddetto “residuo fiscale”. È qui il nucleo fondamentale della grande mistificazione. Il concetto stesso di residuo fiscale non trova spazio in Costituzione: “Data la struttura fortemente accentrata, nel nostro ordinamento, della riscossione delle entrate tributarie e quella profondamente articolata dei soggetti pubblici e degli interventi dagli stessi realizzati sul territorio, risulta estremamente controversa la possibilità di elaborare criteri convenzionali per specificare su base territoriale la relazione quantitativa tra prelievo fiscale e suo reimpiego” (Corte cost., sent. 69/2016). È del tutto evidente la difficoltà di imputare la produzione del provento fiscale a questo o quel territorio, in presenza di un mercato fortemente integrato, dove una parte consistente del fatturato delle imprese del Nord viene dalla produzione e vendita di beni e servizi nel Mezzogiorno e dai benefici fiscali legati al meccanismo del sostituto d’imposta.
Il nuovo governo Lega-Movimento 5 Stelle, nato dopo le elezioni del 4 marzo 2018, prevede nel suo “contratto” di “porre come questione prioritaria nell’agenda di Governo l’attribuzione, per tutte le Regioni che motivatamente lo richiedano, di maggiore autonomia in attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione, portando anche a rapida conclusione le trattative tra Governo e Regioni attualmente aperte. Il riconoscimento delle ulteriori competenze dovrà essere accompagnato dal trasferimento delle risorse necessarie per un autonomo esercizio delle stesse”. A questo richiamo non si accompagna alcuna considerazione sulla compatibilità di sistema, in termini di risorse e di efficienza, di un regionalismo differenziato esteso a tutto il paese. L’ispirazione di fondo è trasparente: “Alla maggiore autonomia dovrà infatti accompagnarsi una maggiore responsabilità sul territorio, in termini di equo soddisfacimento dei servizi a garanzia dei propri cittadini e in termini di efficienza ed efficacia dell’azione svolta”. È il mito delle regioni virtuose ed efficienti che vanno premiate, a fronte di altre che non meritano e vanno dunque punite. Si assume quindi acriticamente la trattativa al punto in cui è arrivata, con i punti già acquisiti nei pre-accordi, con specifici richiami a una distribuzione delle risorse chiaramente di privilegio per i territori economicamente più forti, e di danno per quelli più deboli, come la connessione tra fabbisogno e gettito tributario riferito al territorio. In sintesi, i più ricchi hanno diritto ad avere più diritti. Nessuna considerazione viene data nel “contratto” di governo alla possibile riduzione delle risorse disponibili per le altre regioni. Si afferma solo, in via del tutto apodittica, che bisogna “dare sempre più forza al regionalismo applicando, regione per regione, la logica della geometria variabile che tenga conto sia delle peculiarità e delle specificità delle diverse realtà territoriali sia della solidarietà nazionale”.

Il nuovo ministro per le autonomie locali, la leghista Stefani, tiene numerosi incontri con i tecnici delle regioni senza che vi sia alcun dibattito pubblico. L’11 febbraio 2019 sono finalmente rese pubbliche le bozze, ma non sul sito del Ministero, che ne pubblica invece una versione ridotta il 25 febbraio definita “parte generale – versione concordata”. Essa, per quanto riguarda l’assegnazione delle risorse, fa una ripulitura estetica: scompare la connessione tra fabbisogni e gettito tributario, ma si introducono meccanismi di privilegio fiscale che comunque avvantaggiano le regioni richiedenti rispetto alle altre. Inoltre, rimane un elenco di materie coincidente con quello già noto nelle bozze disconosciute. Scompare la parte speciale con il dettaglio dei trasferimenti, che pure è esistita. Deve intendersi abbandonata, o è stata riposta nel cassetto per tirarla fuori nuovamente al momento opportuno? È difficile credere che il disegno, portato quasi a compimento, venga del tutto abbandonato. In sostanza, le richieste delle regioni sono tutte accettate. Si conferma l’impianto dei pre-accordi Gentiloni, estendendolo da 5 a 23 materie per la Lombardia e il Veneto, 15 per l’Emilia-Romagna; per le prime due, tutto il catalogo delle competenze consentite dall’art. 116, comma 3.
Non si esclude che nel futuro anche altre regioni possano avviare il procedimento, favorendo la scomposizione dell’Italia in blocchi geopolitici.
È uno scenario che potrebbe rendere impossibile qualunque politica nazionale di eguaglianza nei diritti e di superamento del divario territoriale.

Siamo di fronte ad una situazione estremamente grave e preoccupante, che potrebbe dar corpo a un disegno eversivo. Vi è oggi il rischio concretissimo che le intese stipulate dalla ministra leghista Stefani con le regioni Veneto, Lombardia, Emilia siano approvate a breve dal Parlamento con un semplice atto di ratifica. La forma dello stato repubblicano unitario ne verrebbe stravolta, una letale frattura storica si produrrebbe tra Nord e Sud e sarebbe estremamente difficile ricomporla. Su ben 23 materie, tra cui Sanità, Scuola, infrastrutture, la competenza esclusiva passerebbe alle regioni.
Per ritrovare la via smarrita bisogna partire dalla premessa che l’architrave del sistema – come disegnato dalla Costituzione – è la persona umana, titolare di uguali diritti e doveri ovunque risieda. Non esistono, da questo punto di vista, territori più ricchi o più poveri, ma solo luoghi in cui risiedono cittadini che guadagnano di più o di meno. Non esistono territori che abbiano diritto a un ritorno maggiore o minore delle tasse pagate, perché quelle tasse saranno state pagate da tutti – ovunque residenti – in base alle stesse norme e nella stessa misura in rapporto al proprio reddito. Il soggetto pubblico che raccoglie i proventi tributari non è chiamato a garantire che alcuni cittadini per avere guadagnato di più e pagato più tasse stiano meglio di altri, ma al contrario che tutti abbiano tendenzialmente un pari livello di beni o servizi, redistribuendo a tal fine la ricchezza prodotta.

Per opporsi all’autonomia rafforzata e al regionalismo differenziato, per affermare e attuare i principi fondativi della Costituzione repubblicana, noi cittadini di terra di Bari riteniamo essenziale dare vita ad un soggetto organizzato che si proponga una vasta azione capillare di conoscenza, analisi, propaganda e contrasto politico di questo disegno: un Comitato di scopo, aperto senza preclusioni a tutti coloro – singole persone e soggetti collettivi – che condividono i principi della Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza antifascista.

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