Controrivoluzione neocoloniale e «pivot» anticinese di Domenico Losurdo

di Domenico Losurdo

(Articolo pubblicato sul n. 2-3/2015 Marx in Cina su gentile concessione dell’editore, tratto da La sinistra assente, Carocci, Roma, 2014)

Tienanmen 1989: prova generale delle “rivoluzioni colorate”

Nel ricordare ogni anno la tragedia di Piazza Tienanmen, agli inizi di giugno i media occidentali ripropongono immancabilmente il fotogramma del giovane cinese che, disarmato, fronteggia con coraggio un carro armato dell’esercito. Il messaggio che si vuole trasmettere è chiaro: a sfidare la prepotenza e il dispotismo è un combattente della libertà al quale l’Occidente non si stanca di rendere omaggio e che solo in Occidente può trovare la sua patria elettiva.

Ma realmente tutto è così evidente? Realmente non c’è spazio per il dubbio e la sfumatura? Voler riflettere un po’, prima di introiettare e far proprio il messaggio manicheo che viene proposto o che si cerca di imporre, è solo sinonimo di atteggiamento sofistico e di sordità alle ragioni della morale? Il terrorismo dell’immediata percezione e indignazione è in agguato. Chi voglia evitare di cadere in trappola farebbe bene a esitare per un attimo e a porsi alcune domande, prima di giungere a una conclusione non solo frettolosa, ma soprattutto imposta prepotentemente dall’esterno. Anche a volersi attenere agli anni più recenti, innumerevoli sono le foto che potrebbero assurgere a simbolo di violenza e di crudeltà. I grandi mezzi di informazione impegnati nella ricerca di immagini suscettibili di risvegliare o tener desta la coscienza morale dell’umanità avrebbero solo l’imbarazzo della scelta: potrebbero richiamare alla memoria le umiliazioni, le vessazioni e le torture subite dagli irakeni detenuti nella prigione statunitense di Abu Ghraib; oppure potrebbero riprendere il volto emaciato dei detenuti (senza processo) di Guantánamo, impegnati in uno sciopero della fame spezzato dalle autorità carcerarie con una degradante alimentazione forzata e largamente ignorato dai media occidentali. Oppure, se si vuole qualcosa di più forte, perché non dare spazio alla figura del «ribelle» che in Siria degusta il fegato estratto dal cadavere del soldato del regime odiato e combattuto dall’Occidente?

Ci si vuole concentrare esclusivamente sugli avvenimenti di Piazza Tienanmen? Prendiamo atto che è già avvenuta una prima selezione. Ma ecco subito intervenire una seconda. Sempre in relazione a quegli avvenimenti, si potrebbe far ricorso alla foto, che circola su Internet, del soldato cinese arso vivo dai manifestanti e poi impiccato a un traliccio. Vogliamo considerare quella foto, non si sa bene per quale ragione, scarsamente attendibile? Rinunciando alle immagini visive, in modo da concedere un minimo di spazio alla riflessione, ci si potrebbe affidare alle descrizioni contenute nei Tienanmen Papers, in Occidente pubblicati con grande clamore e in seguito a una presunta operazione clandestina e celebrati come la rivelazione definitiva delle infamie che invano il regime al potere in Cina cerca di occultare. Grazie alla lettura ci imbattiamo in circostanze e particolari inaspettati:

Improvvisamente è sopraggiunto di corsa un giovane, ha gettato qualcosa in un autoblindo ed è fuggito via. Alcuni secondi dopo lo stesso fumo verde-giallastro è stato visto fuoriuscire dal veicolo, mentre i soldati si trascinavano fuori e si distendevano a terra, in strada, tenendosi la gola agonizzanti. Qualcuno ha detto che avevano inalato gas venefico. Ma gli ufficiali e i soldati nonostante la rabbia sono riusciti a mantenere l’autocontrollo.

Basterebbe concentrare l’attenzione sugli spasmi e l’agonia dei soldati colpiti dal gas venefico per far cambiare radicalmente direzione alle correnti della commozione e dell’indignazione: la prima si rivolgerebbe all’Esercito popolare di liberazione (che nonostante tutto riesce a «mantenere l’autocontrollo»), la seconda investirebbe i manifestanti, non solo tutt’altro che disarmati ma pronti a far ricorso a qualcosa di simile ad armi chimiche. Continuiamo a leggere:

Più di cinquecento camion dell’esercito sono stati incendiati in corrispondenza di decine di incroci […]. Su viale Chang’an un camion dell’esercito si è fermato per un guasto al motore e duecento rivoltosi hanno assalito il conducente picchiandolo a morte […]. All’incrocio Cuiwei, un camion che trasportava sei soldati ha rallentato per evitare di colpire la folla. Allora un gruppo di dimostranti ha cominciato a lanciare sassi, bombe molotov e torce contro di quello, che a un certo punto si è inclinato sul lato sinistro perché uno dei suoi pneumatici si è forato a causa dei chiodi che i rivoltosi avevano sparso. Allora i manifestanti hanno dato fuoco ad alcuni oggetti e li hanno lanciati contro il veicolo, il cui serbatoioè esploso. Tutti e sei i soldati sono morti tra le fiamme [Nathan, Link, 2001, pp. 435 e 444-5].

Soffermiamoci sull’ultimo episodio: soldati si vedono condannati a morte nel momento stesso in cui cercano di risparmiare la vita e la stessa salute dei loro aggressori. Ecco un altro possibile simbolo della crudeltà umana, che però verrebbe a essere raffigurata non dal Partito comunista al potere in Cina, bensì dai «dissidenti» coccolati e appoggiati dall’Occidente.
Ma immaginiamo che, per una ragione qualsiasi, a essere considerata particolarmente emblematica sia la figura del giovane cinese che fronteggia il carro armato. Ebbene, tale fotogramma fa parte di una sequenza. Come reagisce il carrista al giovane disarmato che lo sfida: lo travolge e lo schiaccia, lo falcia con la mitragliatrice o, invece, lo evita? A tale proposito, i Tienanmen Papers danno la parola a un membro della leadership di Pechino:

Abbiamo visto tutti le immagini del giovane uomo che blocca il carro armato. Il nostro carro armato ha ceduto il passo più e più volte, ma lui stava sempre lì in mezzo alla strada, e anche quando ha tentato di arrampicarsi su di esso i soldati si sono trattenuti e non gli hanno sparato. Questo la dice lunga! Se i militari avessero fatto fuoco, le ripercussioni sarebbero state molto diverse. I nostri soldati hanno eseguito alla perfezione gli ordini del Partito centrale. È stupefacente che siano riusciti a mantenere la calma in una situazione del genere! [ivi, p. 486].

Se si venisse a sapere dell’ostinazione del giovane disarmato a sfidare il carrista che con altrettanta ostinazione s’impegna a salvare la vita e l’incolumità dello sfidante, forse in tal caso il rispetto, la simpatia e l’ammirazione dello spettatore non si rivolgerebbero esclusivamente in una direzione. Una cosa è certa: nel riproporre l’immagine del giovane che sfida il carro armato e nell’eliminare l’immagine del carrista impegnato a evitare di investirlo, i media occidentali procedono a una terza selezione. E, dunque, ben lungi dall’essere sinonimo di evidenza immediata, il fotogramma assurto a emblema della tragedia di Piazza Tienanmen non è né immediato né ha un significato di per sé evidente. Non è immediato perché è il risultato di una selezione così accurata da essere triplice. Non ha un significato di per sé evidente perché, nonostante l’accurata e molteplice selezione alle sue spalle, esso, a ben guardarlo o a ben inquadrarlo, potrebbe avere un significato ben diverso e persino opposto rispetto a quello che l’ideologia dominante gli attribuisce: in circostanze analoghe, nei territori palestinesi occupati, il carrista israeliano (e occidentale) dà prova del medesimo autocontrollo del carrista cinese?

Negli ultimi anni a gettare nuova luce sugli avvenimenti di Piazza Tienanmen hanno provveduto voci insospettabili e autorevoli. L’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt ha ricordato che a Pechino l’intervento militare fu deciso a causa del prolungarsi indefinito di una situazione intollerabile (i manifestanti bloccavano l’attività di governo e respingevano ogni compromesso). Soprattutto: i soldati chiamati a ristabilire l’ordine «hanno dapprima resistito, ma essi furono attaccati con pietre e bottiglie molotov e si sono difesi con le armi che avevano» [Schmidt, 2012]. E questa versione dei fatti è indirettamente confermata dall’allora ambasciatore statunitense a Pechino: il ricorso alle truppe fu deciso solo allorché «il governo si trovava ormai a essere privo di opzioni, al di là dell’assalto militare». Ma si trattava di una decisione chiaramente presa di malavoglia: i primi soldati inviati a sgomberare la piazza «facevano pensare più a una crociata di bambini che a una strategia militare». Erano «truppe disarmate». Dall’altro lato: «una folla adirata aveva distrutto dieci veicoli militari». I soldati furono costretti a ritirarsi. L’attaché militare statunitense, il generale Jack Leide, poteva commentare con professionale soddisfazione: il fiasco dell’Esercito popolare di liberazione era «una versione cinese della ritirata di Napoleone da Mosca» [Lilley, 2004, pp. 309 e 311-2]. Inevitabile era un rinnovato tentativo di sgomberare la piazza, ma è bene non perdere di vista un punto essenziale: «Deng non ordinò un massacro». Nella misura del possibile egli cercava di evitare lo spargimento di sangue o di ridurlo al minimo. In effetti, le scene descritte dall’allora ambasciatore statunitense sono eloquenti: ecco un soldato saltare dal suo mezzo cingolato per evitare di essere «bruciato vivo». Oppure: studenti «che portavano con sé taniche di benzina cercarono, nell’angolo Nord della piazza, di dare alle fiamme veicoli dell’esercito ma furono arrestati dai soldati» [ivi, pp. 316, 318 e 320].

Allorché ripropongono, almeno una volta all’anno, il fotogramma di cui ci stiamo occupando, i media occidentali denunciano al tempo stesso la censura esercitata dalle autorità cinesi. In effetti, queste compiono sforzi disperati per cercare di bandire le immagini dell’«incidente di Piazza Tienanmen». Sennonché, a questo punto s’impone la domanda forse più inquietante: a manipolare la verità di più e più in profondità è la censura cinese o l’apparente mancanza di censura di cui l’Occidente si vanta? Nel primo caso abbiamo senza dubbio a che fare con una mutilazione della verità: un pezzo viene cancellato. Nel secondo caso, ben lungi dall’essere cancellato, quel pezzo, quel fotogramma, risultato di un triplice processo di selezione, viene ossessivamente mostrato ed esibito, e tuttavia questa verità è ora solo un momento del falso complessivo. Peggio, tale verità è ora parte integrante non solo del falso, ma di un falso che mira a inibire la riflessione e l’argomentazione razionale e a produrre, come una sorta di riflesso condizionato, un’indignazione manipolata e suscettibile di essere strumentalizzata per fini inconfessabili. È già all’opera la prima funzione bellica della società dello spettacolo (la demonizzazione del nemico o del potenziale nemico), mentre è in agguato la seconda, la riduzione a spettacolo della violenza esercitata in nome della causa umanitaria dei diritti dell’uomo. Forse lo storico futuro collocherà l’immagine del giovane cinese che fronteggia il carro armato accanto alle immagini o alle “notizie” relative all’affondamento dell’incrociatore Maine, del piroscafo Lusitania e alle navi affondate a Pearl Harbor o “attaccate” nel Golfo del Tonchino; e forse lo storico futuro si interrogherà sulla carica di violenza insita in un’immagine che pretende di voler raffigurare la condanna della violenza in quanto tale.

Sì, la verità dell’immagine del giovane che fronteggia il carro armato è solo un momento del falso complessivo. Mediante il terrorismo dell’immediata percezione e indignazione quell’immagine mira a impedire la riflessione e l’interrogazione: se non la causa della non-violenza, il movimento di Piazza Tienanmen rappresentava in modo inequivocabile la causa della democrazia? Non pochi dei manifestanti guardavano con simpatia e ammirazione a Zhao Ziyang. Prima di ascendere ai vertici della dirigenza cinese, questi «si era fatto notare reprimendo le ultime turbolenze della sinistra radicale» nel Sichuan; al momento della crisi della primavera del 1989 egli era fautore di «una soluzione “neo-autoritaria”, paternalista e tecnocratica» [Domenach, Richer, 1995, pp. 697 e 550] Si trattava di un dirigente noto e apprezzato (in certi circoli cinesi e internazionali) quale campione di un «dispotismo illuminato» [Minqi Li, 2008, p. XI]. Non ci sono dubbi: «Zhao non era un democratico. In quegli anni mirava a promuovere l’economia di mercato con il pugno di ferro». Nelle agitazioni in corso egli vedeva e cercava la sua grande occasione:

Le “masse” in buona parte erano state autorizzate da esponenti riformisti del Pcc a dimostrare, ed erano state condotte alle manifestazioni con camion e autobus delle fabbriche, degli uffici pubblici, dei ministeri. Allo stesso modo il supporto logistico agli studenti era stato offerto da funzionari e imprenditori privati vicini a Zhao Ziyang [Ferraro, 2001].

Quest’ultimo – sottolineano due autori statunitensi – era da considerare «probabilmente il leader cinese più filo-americano nella storia recente» [Bernstein, Munro, 1997, p. 39]. Ma cosa ammirava egli negli Stati Uniti e cosa la dirigenza statunitense apprezzava in lui? A stimolare il rapporto simpatetico tra le due parti era l’amore della libertà o piuttosto il decisionismo neoliberista, pronto all’occorrenza a far ricorso anche a misure «neo-autoritarie» e persino «dispotiche»?

A questo punto ci si può porre una domanda ulteriore: la rivolta di Piazza Tienanmen è stata un avvenimento del tutto interno alla Cina? Un colloquio è rivelatore. Allorché, qualche tempo dopo la tragedia, gli inviati del presidente Bush sr. si recavano a Pechino per conferire con Deng Xiaoping, questi si lamentava con loro per il fatto che gli Usa risultavano «profondamente coinvolti» negli avvenimenti di Piazza Tienanmen e aggiungeva: «Per essere franchi, ciò poteva persino condurre alla guerra» [Kissinger, 2011, pp. 418-9]. A parlare in tal modo era uno statista noto per il suo pragmatismo e la sua prudenza, un teorico del «basso profilo» sulla scena internazionale che per di più in quel momento aveva tutto l’interesse a ricucire i rapporti con Washington, anche al fine di sfuggire all’isolamento diplomatico e commerciale. E a riportare tale dichiarazione è un campione della Realpolitik che non sente il bisogno di respingere un’accusa così dura e che non riferisce di una risposta polemica da parte degli interlocutori statunitensi del leader cinese.

Non solo Deng non viene smentito, ma la sua lettura dei fatti è oggi indirettamente confermata da un autorevole testimone. Si tratta dell’allora ambasciatore statunitense in Cina. Egli ricorda che in quei giorni «dieci appartamenti dell’Ambasciata furono colpiti da più di cento pallottole» sparate dall’esercito cinese impegnato a dare la caccia – questa la versione delle autorità di Pechino – a «un cecchino che aveva ucciso un soldato di una colonna in ritirata». L’ambasciatore statunitense riferisce di aver commentato subito dopo la sparatoria: «Penso che i cinesi stiano tentando di inviarci un messaggio» [Lilley, 2004, p. XII]. Già, ma quale?
Lo possiamo desumere da altri particolari di questa testimonianza. Mentre il confronto tra studenti e governo cinese si inaspriva, ecco l’«attaché militare» dell’ambasciata statunitense a Pechino prendere accordi e lavorare fianco a fianco «con le sue controparti nelle ambasciate australiana, britannica, canadese, francese, tedesca e giapponese». Con quale obiettivo?

Essi si divisero la città in settori e si scambiarono informazioni ottenute grazie a pattuglie. Alla fine di maggio, in risposta all’attenuarsi della crisi, gli attaché militari delle diverse ambasciate istituirono posti di ascolto a tempo pieno in luoghi della città precedentemente scelti. Con una mossa lungimirante, il generale Jack Leide, l’attaché militare dell’ambasciata statunitense, si dette da fare per ottenere e ottenne il permesso di affittare stanze di albergo per i controllori usa. Oltre a una stanza al Fuxingmen Hotel sulla parte occidentale della città, prenotammo due stanze laterali al Peking Hotel, immediatamente a Nord-Est di piazza Tienanmen, che ci consentivano una chiara visione della piazza. Inoltre Leide equipaggiò i suoi uomini con radiotelefoni portatili (walkie-talkies) contrabbandati dall’estero. Era una violazione del protocollo diplomatico, per il fatto che alle missioni diplomatiche non è consentito di mantenere all’interno della Cina la loro radio privata di comunicazioni, ma nel commettere tale violazione mi sono tuttavia sentito a mio agio [ivi, p. 306].

L’attività promossa dagli attaché militari delle ambasciate dei più importanti paesi (occidentali o filo-occidentali), dispiegata grazie a strumenti vietati e illegalmente contrabbandati e diretta da un «lungimirante» generale statunitense, mirava solo a seguire in diretta la crisi o anche a influenzarla? Facendo tesoro dell’«eccellente» conoscenza del «mandarino» di alcuni suoi membri, «il nostro [statunitense] staff diplomatico a Pechino aveva stabilito solidi rapporti con membri dell’esercito, del movimento studentesco e della classe intellettuale»; e tali rapporti erano suscettibili di conseguire cospicui «dividendi» [ivi, pp. 314 e 306]. Quali possono essere i «dividendi» derivanti dal rapporto con membri e settori dell’esercito cinese?
Come chiarisce il risvolto di copertina del suo libro, l’autore di questa testimonianza «ha prestato servizio per circa trenta anni nella Cia a Tokyo, Taiwan, Hong Kong, Laos, Bangkok, Cambogia e Pechino prima di entrare agli inizi degli anni ’80 nel Dipartimento di Stato e di iniziare una brillante carriera diplomatica». Era solo un caso che a dirigere l’attività frenetica appena vista fosse un diplomatico con una consolidata esperienza di agente della Cia alle sue spalle? In quei giorni era presente nella capitale cinese anche Gene Sharp [Engdahl, 2009, p. 93], il teorico delle «rivoluzioni colorate». Siamo in presenza di un’altra casuale coincidenza? E come spiegare allora che, sempre in quel periodo di tempo, Winston Lord, ex ambasciatore a Pechino e consigliere di primo piano del futuro presidente Clinton, non si stancasse di ripetere che la caduta del regime comunista in Cina era «una questione di settimane o mesi» [Bernstein, Munro, 1997, p. 95]? E a cosa mirava la contraffazione della «testata del “Quotidiano del popolo”», l’organo ufficiale del Partito comunista cinese [Nathan, Link 2001, p. 324], e chi era il responsabile di una operazione così sofisticata e suscettibile di lacerare in due frazioni contrapposte il Partito al potere e lo Stato in quanto tale?
Ci ritorna in mente la messa in guardia di Deng Xiaoping, non contraddetta né da Kissinger né da alcun membro della delegazione statunitense: gli Usa si erano resi responsabili di un’operazione che poteva «condurre alla guerra». E cosa poteva essere questa operazione, questo casus belli, se non un tentativo di colpo di Stato pilotato dall’esterno e mirante forse a portare al potere «il leader cinese più filo-americano», quello pronto a far ricorso a un «dispotismo illuminato» in chiave neoliberista? Visti retrospettivamente, gli incidenti di Piazza Tienanmen del 1989 si presentano come la prova generale dei colpi di Stato camuffati ovvero delle «rivoluzioni colorate», che si sarebbero susseguite negli anni successivi.

Il pivot to China

Tanto più necessario e urgente è riflettere sulla storia del colonialismo vecchio e nuovo per il fatto che la situazione internazionale e lo scontro di lunga durata tra colonialismo e anticolonialismo sono a un punto di svolta. Con la guerra contro la Libia e con il «nuovo Sykes-Picot» delineatosi in Medio Oriente vediamo emergere una nuova divisione del lavoro nell’ambito dell’imperialismo, ovviamente sotto la regia di Washington, ma non priva di contraddizioni al suo interno. Le tradizionali grandi potenze coloniali quali l’Inghilterra e la Francia si concentrano sul Medio Oriente e sull’Africa, mentre la Germania, come dimostra l’atteggiamento da essa assunto in occasione della crisi jugoslava prima e ucraina poi, concentra la sua attenzione e dispiega il suo attivismo nei Balcani e in Europa orientale; gli Usa dovrebbero così poter spostare sempre più il loro dispositivo militare in Asia, prendendo di mira col «pivot» la Repubblica popolare cinese.

Torniamo così al paese scaturito da quella che può essere definita la più grande rivoluzione anticoloniale della storia. Non si tratta solo del fatto che essa è avvenuta nel paese più popoloso del mondo: la tragedia subita a partire dalle guerre dell’oppio aveva come vittima un popolo che, dopo aver occupato per secoli e anzi per millenni un posto di primo piano nell’ambito della civiltà mondiale, in tempi straordinariamente rapidi subiva una catastrofe senza precedenti e un processo di rapida e radicale deumanizzazione. Il «secolo delle umiliazioni» ovvero della «Cina crocifissa» ha coinciso con il periodo in cui l’arroganza e la barbarie del colonialismo e dell’imperialismo hanno toccato il loro apice; e la fondazione della Repubblica popolare cinese ha alle sue spalle la resistenza prima contro l’imperialismo giapponese (emulo di quello hitleriano) e poi contro l’imperialismo statunitense.

La Repubblica popolare cinese è il paese che al tempo stesso sintetizza la storia del movimento comunista e del movimento anticolonialista. Sull’onda della rivoluzione d’ottobre Lenin aveva sperato che il contenuto principale o esclusivo del secolo XX che si apriva sarebbe stata la lotta tra capitalismo da un lato e socialismo/comunismo dall’altro: il mondo coloniale era stato ormai totalmente occupato dalle potenze capitaliste e ogni nuova spartizione per iniziativa delle potenze sconfitte o «svantaggiate» avrebbe significato una nuova guerra mondiale e un nuovo passo in avanti verso la distruzione finale del sistema capitalista: la conquista dell’ordine nuovo socialista era immediatamente all’ordine del giorno! Sennonché, Hitler faceva una mossa inaspettata: individuava nell’Europa orientale lo spazio coloniale ancora libero e a disposizione dell’impero tedesco da edificare; e in modo analogo, come sappiamo, si atteggiavano l’Impero del Sol Levante e l’Italia fascista. È così che in paesi di antica o antichissima civiltà e nella stessa Europa irrompeva la lotta tra colonialismo da un lato e anticolonialismo [promosso e spesso diretto dal movimento comunista) dall’altro. Di questa situazione inattesa era Mao Zedong a fornire la sintesi più efficace, evidenziando in determinate circostanze «l’identità fra la lotta nazionale e la lotta di classe» [Losurdo, 2013, cap. 6, par. 7].

La vittoria della rivoluzione anticolonialista mondiale non comporta il dileguare della questione coloniale: i paesi di nuova indipendenza sono chiamati a colmare il distacco economico e tecnologico rispetto ai paesi capitalisti più avanzati (e alle ex potenze coloniali), se vogliono evitare che la conquistata indipendenza politica diventi qualcosa di meramente formale. A esprimere la consapevolezza più lucida della necessità di questa nuova tappa della rivoluzione anticoloniale è stato un altro leader cinese, e cioè Deng Xiaoping.

Affermare la centralità nel XX secolo e in questo inizio del XXI della lotta tra colonialismo e anticolonialismo non significa ignorare la lotta anticapitalistica. Si tratta invece di comprendere quest’ultima a partire dalla prima. Sia Mao che Deng hanno cara la parola d’ordine per cui «solo il socialismo può salvare la Cina»: nel grande paese asiatico l’ordine nuovo postcapitalistico è stato progettato e ha cominciato a prender forma a partire dalla lotta contro l’assoggettamento coloniale; in modo analogo, in America Latina, il «socialismo del XXI secolo» è stato pensato e si diffonde sull’onda della lotta contro la dottrina Monroe e per l’indipendenza nazionale. Resta il fatto che, più di ogni altro paese, la Repubblica popolare cinese esprime in modo condensato la storia della rivoluzione anticolonialista e del movimento comunista e dell’intrecciarsi dell’una con l’altro.
Abbiamo visto Brzezinski sottolineare il ruolo essenziale svolto dalla «guerra di popolo» (che ha avuto in Mao il suo primo grande interprete) nel corso della rivoluzione anticoloniale. Ma non meno essenziale è l’insegnamento ai paesi di nuova indipendenza fornito prima da Mao Zedong e poi, in modo più organico, da Deng Xiaoping, sulla necessità del passaggio dalla fase prevalentemente militare alla fase prevalentemente economica della rivoluzione anticoloniale. E non a caso le riforme realizzate in Cina ispirano il Vietnam e più recentemente anche Cuba e, con modalità diverse, un numero crescente di paesi del Terzo Mondo, inclini a farla finita con il neoliberista «Washington Consensus» per guardare invece al «Beijing Consensus».
Se il paese che ne è il bersaglio è scaturito dalla più grande rivoluzione anticoloniale della storia, il paese promotore del «pivot» è quello che più di ogni altro è riuscito a conferire una parvenza anticoloniale al suo espansionismo coloniale e neocoloniale. Ciò vale già per la fondazione degli Usa, scaturiti non da una rivoluzione anticoloniale, come spesso si legge, bensì da una controrivoluzione colonialista. […]

Dopo la disfatta della Germania hitleriana, non c’è dubbio che gli Stati Uniti siano divenuti il nemico principale della rivoluzione anticolonialista: ne sanno qualcosa Cuba e numerosi altri paesi dell’America Latina; ne sa qualcosa il Vietnam; ne sa qualcosa la stessa Palestina, i cui abitanti subiscono un processo di ininterrotta espropriazione e colonizzazione anche a causa della sostanziale complicità di Washington con Tel Aviv.
Infine, ne sa qualcosa la Cina: dopo che le è stato impedito di portare a termine il processo di unificazione nazionale e di recupero dell’integrità territoriale, e rimasta a lungo isolata diplomaticamente e strangolata economicamente, è ora bersaglio del «pivot» inscenato da un terrificante apparato militare. Al momento della conclusione della prima tappa della rivoluzione anticoloniale del grande paese asiatico, si sviluppava negli Usa un dibattito lacerante e rivelatore: «who lost China?». La superpotenza apparentemente invincibile si era lasciata strappare un paese di enorme importanza strategica e un mercato potenzialmente immenso: chi era il responsabile? Con il varo delle riforme di Deng, agli inizi della seconda tappa della rivoluzione anticoloniale riemergevano negli Stati Uniti le speranze di riconquista del paese «perso» trent’anni prima:

Alcuni analisti predissero perfino che le Zone economiche speciali sarebbero diventate una sorta di colonia americana in Asia orientale […]. Gli americani credevano che la Cina sarebbe diventata una gigantesca succursale economica degli Stati Uniti [Ferguson, 2008, pp. 585-6].

Ma anche in questo caso, la delusione non tardava a intervenire. Se alla prima «perdita» del grande paese asiatico faceva seguito la politica di «contenimento» e di spietato strangolamento diplomatico ed economico, alla seconda «perdita» fa seguito il «pivot».

Il «pivot» viene spesso presentato in Occidente come una risposta alla «minaccia» proveniente da Pechino. Non c’è dubbio che l’ascesa o, più esattamente, il ritorno della Cina, dopo la fine del «secolo delle umiliazioni», e il poderoso sviluppo industriale e tecnologico del grande paese asiatico stanno modificando il quadro internazionale in modo radicale. Nel marzo 1949 il generale statunitense Mac Arthur poteva constatare compiaciuto: «Ora il Pacifico è diventato un lago Anglo-Sassone» [in Kissinger, 2011, p. 125]. Dati i rapporti di forza esistenti, gli Usa nutrivano ancora qualche speranza di bloccare con il loro intervento l’ascesa al potere del Partito comunista e di Mao Zedong ; la speranza andava rapidamente delusa e a Washington, tra polemiche furibonde, si scatenava la caccia al responsabile della «perdita» del grande paese asiatico.
Il Pacifico non era più in senso stretto «un lago Anglo-Sassone», ma, come sappiamo, ancora alla fine della guerra fredda gli Stati Uniti violavano indisturbati lo spazio aereo e marittimo cinese. Erano gli anni in cui la superpotenza ormai solitaria cercava di consolidare e rendere permanente e incolmabile la sua già netta superiorità militare mediante la Revolution in Military Affairs. Questa conosceva il suo trionfale battesimo del fuoco nel corso della prima guerra del Golfo: pur armato in misura non trascurabile, l’Iraq di Saddam Hussein subiva una disfatta rapida e irreparabile. Suonava un campanello d’allarme soprattutto per i paesi che da poco si erano scossi di dosso il giogo coloniale.
A Pechino, nel giugno 1991 Jiang Zemin [2010, pp. 134, 136 e 591] esprimeva la sua preoccupazione: «Se anche una guerra mondiale non è imminente, il mondo è ben lungi dall’essere pacifico»; «particolarmente preoccupante è la Guerra del golfo». «Il ruolo della tecnologia militare è diventato una questione importante»: per quanto riguarda la Cina, in certi settori dell’apparato militare «il gap si sta aggravando». È un concetto precisato e ribadito cinque anni dopo: «L’applicazione su larga scala di tecnologie nuove e sofisticate sta cambiando il mondo in profondità sul piano non solo sociale ed economico ma anche militare e sta introducendo mutamenti rivoluzionari nella sfera militare». Il mancato appuntamento con la prima rivoluzione industriale e tecnologica aveva segnato l’inizio del «secolo delle umiliazioni»; il mancato appuntamento con la rivoluzione industriale, tecnologica e militare in corso avrebbe comportato il ripetersi della tragedia forse su scala più larga. In questo quadro vanno inseriti gli sforzi in questi ultimi anni dispiegati dalla Cina per ridurre il suo ritardo sul piano militare.

Argomento di fantapolitica anche nel passato più recente, la «minaccia cinese» ha assunto improvvisa realtà e concretezza ai giorni nostri? Diamo la parola a uno studioso statunitense di origine cinese, autore di un libro pubblicato da un’istituzione in qualche modo ufficiale del paese-guida dell’Occidente (Strategic Studies Institute, U. S. Army War College). Ebbene, in questo studio possiamo leggere che, secondo alcuni analisti, i missili cinesi potrebbero «costringere la Marina statunitense a operare a più lunga distanza dalla costa [cinese], almeno nella fase iniziale del conflitto» [Lai, 2011, p. 217]. Stando così le cose, si possono capire i rimpianti di Washington per il fatto che il Pacifico non è più (nella sua parte occidentale) «un lago Anglo-Sassone», anzi un «lago privato» [Dyer, 2014, p. 2], o per il fatto che non è più agevole violare lo spazio territoriale, aereo e marittimo del grande paese asiatico; e tuttavia sembrerebbe azzardato parlare di «China Threat» o di «pericolo giallo»! Attualmente, la marina militare statunitense, che gode di una schiacciante superiorità, «opera a poche miglia di distanza da molte delle più importanti città cinesi» [ivi, p. 1]. Se questo è già sinonimo di «minaccia cinese», cosa si dovrebbe dire di una situazione rovesciata, in base alla quale fosse una superiore marina militare cinese a tenere sotto controllo e sotto minaccia, a distanza di poche miglia, San Francisco e New York? In realtà, su Foreign Affairs, l’autore dell’articolo che già conosciamo sulla capacità di primo colpo nucleare forse conseguita dagli Usa, sottolinea compiaciuto «il passo glaciale della modernizzazione delle forze nucleari cinesi»: dunque, «le probabilità che Pechino acquisisca nel prossimo decennio un deterrente nucleare capace di sopravvivere sono esili […]. Contro la Cina gli Stati Uniti hanno oggi una capacità di primo colpo e saranno capaci di mantenerla per un decennio e anche più» [Lieber, Press, 2006, pp. 43 e 49-50].

Ma come spiegare allora i conflitti per alcune isole collocate nel Mar Cinese Orientale e nel Mar Cinese Meridionale? Riprendiamo la lettura dello studio pubblicato dallo statunitense Strategic Studies Institute:

La Cina ha una lunga storia di pescatori che pescavano in queste acque così come di rivendicazioni ufficiali di queste isole. Presumibilmente, i cinesi per primi dettero loro un nome, le utilizzarono come punti di riferimento per la navigazione, tentarono di designarle come territori cinesi collocandole sotto la giurisdizione delle province costiere meridionali della Cina e definendole come tali sulle mappe. Per secoli i cinesi hanno dato per scontato che questo titolo storico (historical reach) stabiliva la loro proprietà su queste isole e sulle acque circostanti [Lai, 2011, p. 127].

Intervenivano poi il declino della Cina e l’espansionismo coloniale: «negli anni ’30 i francesi presero possesso delle isole Paracelso [Xisha in cinese] e Spratly [Nansha in cinese] in modo da espandere la portata del loro protettorato coloniale», mentre «durante la seconda guerra mondiale il Giappone assunse il controllo di tutte le isole del Mar Cinese Meridionale» [ivi, p. 128]. Con la Dichiarazione del Cairo (1943) e la proclamazione di Potsdam (1945) il Giappone si impegnava a restituire tutti i territori che «aveva rubato». Sennonché, in seguito allo scoppio della guerra fredda, alla Conferenza di pace di San Francisco non venivano invitate né la Repubblica popolare cinese né la Repubblica di Cina (Taiwan); il Giappone alleato degli Usa poteva così trattenere le isole Senkaku (Diaoyu per i cinesi). Esse avrebbero dovuto essere restituite ma nelle nuove circostanze erano di grande utilità quale pistola puntata contro il nemico scaturito da una grande rivoluzione anticoloniale e ispiratore in Asia di un’ulteriore ondata di rivoluzioni anticoloniali. Dava prova di preveggenza il primo ministro Zhou Enlai, che alla vigilia della conferenza condannava gli Usa per il fatto «di privare la Cina del suo diritto a recuperare i suoi territori perduti» e «di varare un trattato per la guerra, non per la pace, nel Pacifico Occidentale» [ivi, p. 129].
Vale la pena di notare che sulle isole contese la Repubblica popolare cinese non assume una posizione diversa dalla Repubblica di Cina (Taiwan). Anzi, sembrerebbe che quest’ultima abbia dato prova di maggiore fermezza, a giudicare almeno dalla fonte statunitense più volte citata:

Nel 1946, il governo della Repubblica di Cina [la repubblica anteriore all’avvento dei comunisti al potere] inviò navi da guerra per “recuperare” le isole Paracelso e Spratly. In un mondo che enfatizzava il controllo di fatto piuttosto che le rivendicazioni storiche, la Cina avrebbe potuto mantenere lì le sue truppe al fine di esercitare il controllo di fatto su quei territori e affermare il possesso fermo e incontestabile di quelle isole. Per aver mancato di far ciò e aver trascurato per decenni le isole del Mar Cinese Meridionale i leader cinesi [in primo luogo della Repubblica popolare] hanno da rimproverare se stessi […]. I leader cinesi [della Repubblica popolare] sciuparono tutto il loro tempo e tutte le loro energie impegnando i cinesi gli uni contro gli altri in “perpetue rivoluzioni e lotte di classe”, mentre lasciavano incustoditi i territori contesi in mare aperto [ivi, p. 130].

A rivelarsi particolarmente intrattabile è il conflitto tra Cina e Giappone, ma è quest’ultimo ad averlo provocato. La verità finisce con l’emergere dalle stesse analisi di giornalisti e studiosi occidentali: «ragionevole» è la rivendicazione avanzata da Pechino sulle «isole Diaoyu» (ovvero Senkaku); e si tratta di una rivendicazione avanzata dalla nazione cinese nel suo complesso, che anzi spesso rimprovera ai suoi governanti di assumere un atteggiamento «troppo conciliante e molle» [Kristof, 2013]. Nonostante ciò – sottolinea un sociologo britannico – la Cina si accontenterebbe di definire «contesa» l’appartenenza di quelle isole, rinviando la soluzione del problema alle future generazioni. Si tratta di una proposta già avanzata a suo tempo da Zhou Enlai e inizialmente accettata dal Giappone, che ora invece la respinge seccamente. È una «follia» che si spiega con l’ondata sciovinistica che scuote il paese del Sol Levante [Dore, 2013]. Si tratta di un paese – occorre aggiungere – che non riesce a fare i conti con il suo orribile passato. Nel 1965, mentre infuriava l’aggressione contro il Vietnam, il primo ministro giapponese Eisaku Sato sollecitava il segretario statunitense alla difesa, Robert McNamara, a far ricorso all’arma nucleare nel caso di guerra contro la Cina, colpevole di aiutare il Vietnam [International Herald Tribune, 2008]. Ai giorni nostri, incoraggiato e reso spavaldo dall’appoggio degli Usa e dal «pivot» anticinese da essi inscenato, il governo giapponese si ostina in un negazionismo che è un insulto alla memoria delle vittime, non lascia presagire nulla di buono per il futuro e che, a causa del suo radicalismo, finisce con l’inquietare anche Washington.

L’imperialismo occidentale punta allo smembramento della Cina

In ogni caso, del tutto pretestuosa si rivela la parola d’ordine del «China Threat» (ovvero del «pericolo giallo»): questa parola d’ordine è un completo stravolgimento della verità. Il fatto è che non possiamo considerare definitivamente conclusa la lotta di liberazione nazionale che ha presieduto alla nascita della Repubblica popolare cinese. Non si tratta solo di Taiwan. Insistenti risuonano le voci che prevedono o auspicano per il grande paese asiatico una fine analoga a quella subita dall’Unione Sovietica o dalla Jugoslavia: «una nuova frammentazione della Cina è l’esito più probabile» – annunciava un libro di successo pubblicato a New York l’anno stesso dell’«implosione» del paese sconfitto nel corso della guerra fredda [Friedman, Lebard, 1991].
Da allora, negli Usa e nei paesi a essi alleati, si sono moltiplicate le prese di posizione di analisti, strateghi, politici, uomini di Stato che prevedono o invocano la «frammentazione del colosso cinese», il suo smembramento in «sette Cine» o in «molte Taiwan». L’ideale sarebbe procedere a una «disintegrazione dall’interno» (disintegration from within). In ogni caso Washington è chiamata ad «affrontare in maniera più coerente la futura frammentazione della Cina». Siamo in presenza di una campagna che si muove su vari fronti: dà da pensare il premio conferito dal Los Angeles Times a un libro che invoca il ritorno alla Cina della dinastia Ming (che vede la sua fine nel 1644), con esclusione quindi del Tibet, del Xinjiang, della Mongolia interna e della Manciuria. Certo, se in modo analogo si dovesse procedere per gli Usa, essi cesserebbero di essere uno Stato indipendente e diventerebbero di nuovo una colonia della Gran Bretagna! Ma, ovviamente, l’autore qui citato ha di mira solo la Repubblica popolare cinese: assieme dunque a secoli di storia, dovrebbe essere rimessa in discussione una parte assai considerevole (pressappoco la metà) del suo odierno territorio. Ancora oltre va un altro libro acclamato in Occidente: occorre contrastare il governo di Pechino anche a proposito dell’«invenzione di un’unica etnia di cinesi Han»; in realtà al loro interno sussistono notevoli differenze per quanto riguarda la stessa lingua, e dunque… [Losurdo, 2010, cap. 8, par. 8].

Talvolta, il desiderio di sbarazzarsi di un potenziale concorrente ama camuffarsi come previsione storica: «Alcuni esperti hanno addirittura profetizzato il ripetersi di uno di quei cicli storici in cui si è assistito allo smembramento del Paese, che farebbe svanire i sogni di grandezza della Cina» [Brzezinski, 1998, p. 218]. Qualunque sia il linguaggio di volta in volta usato, abbiamo a che fare con un obiettivo perseguito indipendentemente dalla politica messa in atto dal governo di Pechino sul piano nazionale o internazionale: nel 1999, l’anno del bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado, un esponente di rilievo dell’amministrazione statunitense dichiarava che, già solo per la sua «dimensione», la Cina costituiva un problema, ovvero una potenziale minaccia [Richardson, 1999].
Non stupisce allora che, nel ricevere il Premio per la pace dei librai tedeschi, il «dissidente» cinese Liao Yiwu abbia pronunciato un discorso la cui parola d’ordine era, in riferimento al suo paese: «Questo Impero deve finire in pezzi» (auseinanderbrechen) [Köckritz, 2012]. Come si vede, lo smembramento della Cina, comunque conseguito, viene considerato un contributo alla causa della pace! Resta il fatto che è il paese di cui si progetta, o si invoca o si sogna, lo smembramento a essere realmente minacciato. […]

Attacco alla Cina da destra e da sinistra: una strategia consolidata

A causa dell’aggrovigliato intreccio di contraddizioni da cui scaturisce e dell’ambizioso progetto di trasformazione che essa persegue, ogni grande rivoluzione finisce con l’essere messa in questione da contrapposti schieramenti, che per qualche tempo possono persino fare causa comune. Così è avvenuto per la rivoluzione francese: combattendo Robespierre da «sinistra», inizialmente Babeuf salutava con favore il Termidoro che poi l’avrebbe condannato a morte. Di questa dialettica oggettiva nel Novecento hanno saputo far tesoro le grandi potenze impegnate a destabilizzare i paesi scaturiti da una grande rivoluzione. […]
Non c’è motivo per abbandonare una strategia sperimentata e coronata dal successo, ed essa è infatti più che mai all’opera contro la Repubblica popolare cinese. Quante denunce si possono leggere sulla stampa nordamericana ed europea sullo sfruttamento della classe operaia da parte di un regime comunista o che si proclama tale? Sennonché, ben diversamente suonano i rimbrotti che il giornalista televisivo statunitense Mike Wallace comunica il 2 settembre 1986 a Deng Xiaoping : «gli investitori occidentali si lamentano che la Cina rende difficili gli affari: affitti esorbitanti per gli uffici, troppi bisticci per i contratti, troppe tasse speciali; anche il lavoro è eccessivamente caro» [in Deng Xiaoping, 1992-95, vol. 3, p. 173]. Circa vent’anni dopo c’è una replica di cui riferisce l’International Herald Tribune: il governo cinese prepara una legge mirante a «proteggere i lavoratori», impedire o contenere gli abusi padronali e «conferire un potere reale ai sindacati»; si scatena la protesta di cui sono protagonisti i grandi industriali, la «Camera Americana del Commercio» e «deputati americani» [Barboza, 2006]. Tali lamentele si rinnovano ogni volta che a Pechino il potere politico vara norme a favore della classe operaia.
È una doppiezza che si manifesta a ogni livello. Sì, instancabile è la campagna che denuncia il ritardo delle regioni più lontane dal mare e quindi sfavorite sul piano geografico (anche se negli ultimi anni tale ritardo comincia a ridursi); ma non mancano neppure gli appelli rivolti alle regioni costiere perché si sbarazzino del peso rappresentato dalle regioni più arretrate. E tali appelli risultano tutt’altro che stupefacenti se si riflette sul fatto che da sempre gli Usa hanno guardato con diffidenza o ostilità allo Stato sociale, e che lo Stato sociale trova la sua espressione in Cina anche nell’aiuto che le regioni più avanzate, quelle costiere appunto, sono tenute a fornire alle altre.

Oppure, si prenda la questione ambientale. Sulla sua drammaticità in Cina a ragione l’Occidente non si stanca di insistere (rimossi sono però il grande smog che nel dicembre 1952 provocò a Londra migliaia di morti e la catastrofe ecologica forse più grave della storia umana, verificatasi nel dicembre 1984 a Bhopal e della quale fu responsabile la filiale indiana della Union Carbide, una multinazionale di fertilizzanti e insetticidi agricoli che aveva il suo centro negli Stati Uniti). Al tempo stesso, però, ecco la più autorevole stampa statunitense e occidentale dare ampio spazio a un «dissidente», uno scrittore, che prende posizioni contro il governo cinese in questi termini: è inammissibile voler limitare il traffico, il fumo, le graticole all’aperto; ridicolo è lo slogan in base al quale «la riduzione dell’inquinamento comincia da me stesso»; fuorviante è anche la chiusura delle «piccole fabbriche di proprietà privata». Tutto è inutile sino a quando non saranno colpite massicciamente le «fabbriche grandi e medie di proprietà statale» [Yu Hua, 2013]. E così mentre si tuona contro la Repubblica popolare cinese per il suo sviluppo non rispettoso dell’ambiente, ci si fa beffe delle misure prese in qualsiasi paese civile per contenere l’inquinamento e si riafferma il diritto degli automobilisti, dei fumatori, degli appassionati della graticola a inquinare a loro gradimento. Al «dissidente», come ai circoli statunitensi che lo vezzeggiano, la cosa che sta veramente a cuore non sono l’ambiente e lo sviluppo della coscienza ecologica, bensì lo smantellamento dell’industria statale, quella che ha consentito alla Cina di superare indenne la devastante crisi economica abbattutasi sull’Occidente.

L’attacco alla Cina risulta tanto più efficace per il fatto che la decurtazione della Carta dei diritti dell’uomo consente a Washington di rimproverare al paese potenzialmente nemico il mancato rispetto della religione civile del nostro tempo. Per F. D. Roosevelt tra gli essenziali diritti dell’uomo rientrava anche la «libertà dal bisogno» e, se si tiene fermo questo punto, dobbiamo giungere a una conclusione che è diametralmente opposta all’ideologia dominante e che tuttavia è inoppugnabile. Nei decenni che precedevano le guerre dell’oppio la Cina vantava un prodotto interno lordo e un’aspettativa di vita di tutto rispetto e persino invidiabili. A conclusione del «secolo delle umiliazioni», la Cina era uno dei paesi più poveri del mondo o forse il più povero in assoluto. Detto diversamente, il periodo iniziato con le guerre dell’oppio ha comportato una violazione su scala senza precedenti di quell’essenziale diritto dell’uomo che è la «libertà dal bisogno». Così come la fuoriuscita dalla miseria e dalla fame sta a significare nella Cina di oggi la riconquista della «libertà dal bisogno» a opera di centinaia e centinaia di milioni di persone, un trionfo di una portata storica per la causa dei diritti dell’uomo.
A rigor di logica, a dover essere messi in stato d’accusa sono proprio coloro che oggi si ergono a giudici solitari e inappellabili.
Alla medesima conclusione si giunge partendo da quell’altro diritto essenziale dell’uomo che, sempre secondo F. D. Roosevelt, è la «libertà dalla paura». In questo caso il quadro è ancora più chiaro, e per illustrarlo mi limito a citare un articolo del più autorevole quotidiano statunitense (e occidentale). Prendendo lo spunto dai recenti accordi commerciali stipulati dalla Cina con i paesi dell’Asia centrale, che prevedono anche l’estensione dei collegamenti ferroviari fra le due parti, esso osserva nascondendo appena il suo disappunto:

Mentre la maggior parte delle importazioni di materie prime e delle esportazioni di beni finiti passa di solito attraverso rotte marittime controllate dalla Marina militare degli Usa, lo sviluppo di rotte terrestri nel Kazakistan e l’accesso all’abbondante petrolio, ferro e frumento di questo paese significa che una percentuale crescente del commercio cinese viaggia attraverso aree al di fuori del dominio americano.

La Cina non vuole essere in balia di «qualunque cosa gli Stati Uniti decidono di fare» [Bradsher, 2013]. Un blocco dei flussi commerciali del grande paese asiatico significherebbe la condanna alla fame per oltre un miliardo e trecento milioni di persone. In questo caso, la «libertà dalla paura» coincide con la «libertà dal bisogno», ed è chiaro chi è deciso a preservare l’una e l’altra e chi ha la tentazione di cancellare entrambe.
Disgraziatamente, l’ideologia e il potere dominanti hanno di fatto depennato dalla Carta dei diritti dell’uomo la «libertà dal bisogno» e la «libertà dalla paura»; esse sono state largamente dimenticate dalle Organizzazioni non governative e di esse la stessa sinistra sembra avere un ricordo vago e confuso. Mentre depreca lo smantellamento dello Stato sociale, la crescente miseria di massa e dunque la cancellazione della «libertà dal bisogno», la sinistra non fa riferimento a essa allorché analizza la situazione internazionale. Quando contrappone il capitalismo occidentale al «capitalismo autoritario» della Cina e al «capitalismo populista» (incline al caudillismo e all’autoritarismo) dell’«America Latina», Žižek [2009a, p. 131 e 2009b, p. 450] non tiene conto in alcun modo né della «libertà dal bisogno» né della «libertà dalla paura». E procedendo a un confronto astratto tra paesi tra loro così diversi, egli ignora in realtà anche la lezione di Hamilton, il quale ha spiegato una volta per sempre che una situazione di tranquillità geopolitica è la condizione per lo sviluppo del governo della legge, delle istituzioni liberali e della democrazia.
A uscir peggio da questo confronto sono regolarmente i paesi che hanno alle spalle una rivoluzione anticoloniale e che in qualche modo sono impegnati a proseguirla. Assieme alla Cina, sotto la categoria di «capitalismo autoritario» potrebbe essere sussunto anche il Vietnam e rischia di essere sussunta la stessa Cuba, che negli ultimi anni si è avviata su un cammino non troppo dissimile da quello intrapreso da Cina e Vietnam. La categoria di «capitalismo populista» fa subito pensare, in primo luogo, al Venezuela di Hugo Chávez e di Nicolás Maduro. Sul versante opposto, a distinguersi positivamente per il fatto di essere comunque immuni da autoritarismo e populismo sono le grandi potenze capitalistiche e imperialistiche responsabili di minare la tranquillità geopolitica e le possibilità di sviluppo democratico dei paesi che costituiscono il bersaglio principale del potere e dell’ideologia dominanti (e dello stesso Žižek).
Forse si può procedere a un confronto del tutto diverso. Per portare a termine il loro processo di democratizzazione, pur godendo di una situazione geopolitica eccezionalmente favorevole, gli Usa hanno avuto bisogno di due secoli (sì, nella repubblica nordamericana lo Stato razziale e la discriminazione contro i neri e altre «razze» tradizionalmente considerate «inferiori» hanno per qualche tempo continuato a sussistere anche dopo il crollo del Terzo Reich). È da aggiungere che dopo l’11 settembre, il processo di democratizzazione ha conosciuto vistose regressioni. Considerazioni analoghe si possono fare per paesi come la Gran Bretagna e la Francia.
Cos’è che realmente motiva l’impazienza di cui l’Occidente nel suo complesso (compresa larga parte della sinistra) dà prova nei confronti di paesi e ordinamenti politici scaturiti da una rivoluzione anticoloniale?

Imperialismo occidentale e nichilismo storico

Da sempre la conquista di un paese è un’impresa che va ben al di là della dimensione puramente militare. Se pensiamo in particolare al mondo coloniale, il rapporto di dominio risulta solido e duraturo solo allorché riposa sulla distruzione della storia, dell’identità culturale, dell’autostima del popolo assoggettato, sicché quest’ultimo cade in preda all’autofobia e aspira a essere partecipe, sia pure in modo subalterno, dell’identità del vincitore. Non si tratta di una vicenda conclusasi con il tramonto del colonialismo classico e limitata al mondo coloniale propriamente detto. Può persino accadere che a contribuire involontariamente al processo sopra descritto siano un grande movimento rivoluzionario o alcune sue componenti. [… Nella Russia post-sovietica degli anni Novanta governata da El’cin] per qualche tempo l’unica cultura considerata degna di considerazione era quella che si ispirava (acriticamente) all’Occidente e al suo paese-guida e che con abbondanza di mezzi era propagandata da fondazioni e «organizzazioni non-governative» generosamente finanziate per l’appunto dall’Occidente e dal suo paese-guida.

Quello che in relazione alla Russia era un risultato in larga parte casuale, diviene ora un programma dagli strateghi di Washington coscientemente e tenacemente perseguito nel corso della lotta contro la Cina. Certo, si ha ora a che fare con una civiltà millenaria, che ha saputo respingere, assorbire o contenere le sfide provenienti dall’estero persino nel corso del tragico «secolo delle umiliazioni» apertosi con le guerre dell’oppio. In questo caso, lo spazio per il nichilismo nazionale è ben più ridotto, tanto più che il Partito comunista cinese è giunto al potere sull’onda di una gigantesca rivoluzione anticoloniale e nazionale.
E tuttavia, nel corso del Novecento non sono mancati momenti in cui la Cina, interrogandosi sulle ragioni di fondo del sopraggiungere delle «umiliazioni», ha messo in discussione più o meno in blocco la storia alle sue spalle, anche quella più remota. È ciò che avveniva con il movimento del 4 maggio 1919: assieme all’imperialismo giapponese ormai sul punto di sostituirsi all’imperialismo occidentale, esso prendeva di mira impietosamente Confucio e il confucianesimo, cioè la cultura che da due millenni e mezzo contrassegnava la storia del grande paese asiatico. Si verificava poi una sorta di replica in forma più radicale in occasione della rivoluzione culturale, allorché, come nella Russia sovietica del Proletkult, assieme a Confucio e al confucianesimo diveniva oggetto di derisione (e talvolta di iconoclastia) tutto ciò che non era autenticamente «proletario». E, tuttavia, anche nel corso di quegli anni continuavano a essere stampate, studiate e venerate le opere di Mao, fitte di riferimenti agli autori classici della millenaria cultura cinese, a cominciare da Sun Tzu, il grande stratega e teorico della guerra del VI-V secolo a.C., studiato con profitto e citato anche nel corso della guerra di resistenza contro l’imperialismo giapponese.

C’è comunque pur sempre uno spazio per il tentativo di distruzione dell’identità della Cina: si spiega così l’impegno statunitense e occidentale a delegittimare la grande rivoluzione e la Repubblica popolare cinese che da essa è scaturita, criminalizzando e demonizzando in blocco entrambi i periodi in cui si articola la sua storia, quello dominato dalla figura di Mao Zedong e quello che fa seguito all’avvento al potere di Deng Xiaoping. Quest’ultimo ha liberato dalla fame e dalla miseria più abietta centinaia e centinaia di milioni di persone. Per dirla con le parole di un grande statista occidentale (che ha presente soprattutto la dimensione economica): è «il leader comunista di più grande successo della storia mondiale» [Schmidt, 2012]. Anzi, si chiede un autorevole studioso statunitense: «C’è un altro leader nel ventesimo secolo che abbia fatto di più per migliorare la vita di un numero così alto di persone? C’è un altro leader novecentesco che abbia esercitato un’influenza così grande e così duratura sulla storia mondiale?» [Vogel, 2011, p. 690]. E dunque, di tale personalità la nazione cinese può ben essere orgogliosa; e ben si comprende allora l’aspirazione a impiccare Deng Xiaoping al lampione di Piazza Tienanmen, nutrita da coloro che sono impegnati a privare la Repubblica popolare cinese della sua storia, della sua autostima, della sua identità. Ogni volta che si ricorda la tragedia verificatasi su quella piazza, il terrorismo dell’immediata percezione e indignazione associa regolarmente la foto di Deng Xiaoping, o un commento su di lui, alla foto del carro armato fronteggiato dal manifestante indifeso; il silenzio sulla triplice selezione, a fondamento di quella immagine, favorisce il dispiegarsi dell’azione subliminale.
Quest’operazione non sarebbe completa senza la criminalizzazione e demonizzazione di Mao Zedong. Eppure i suoi meriti sono enormi ed evidenti. Diamo di nuovo la parola all’ex cancelliere della Repubblica federale tedesca: «Egli ha ristabilito (wiederhergestellt) la Cina dopo un secolo e mezzo di colonizzazione» [Schmidt, 2012]. E, nel far ciò, ha contribuito potentemente ad abbattere il colonialismo su scala mondiale e a porre fine a un lungo capitolo di storia caratterizzato dal trionfo della legge del più forte, dall’assoggettamento e schiavizzazione di fatto delle nazioni più deboli, dal saccheggio delle loro risorse, dall’arroganza razziale e dalle infamie razziste, dal ricorso a pratiche genocide. Il principale pretesto per procedere alla damnatio memoriae del fondatore della Repubblica popolare cinese è il Grande balzo in avanti del 1958-59: a causa anche di impreviste calamità naturali e del contesto internazionale sfavorevole e ostile (all’embargo sin dagli inizi impietosamente praticato dagli usa e dall’Occidente si aggiungeva la rottura con l’Urss e gli altri paesi socialisti), il tentativo di accelerare impetuosamente lo sviluppo delle forze produttive, in modo da liberare il popolo cinese una volta per sempre dalla miseria e dalla penuria, falliva in modo clamoroso e tragico; ne scaturivano una disperata fame di massa e una morte per inedia su larga scala. Prendendo le mosse da questo dato inconfutabile, la macchina propagandistica dell’ideologia dominante procede in modo assai spedito: ingigantisce le dimensioni della tragedia, trasforma un grave errore politico in un delitto intenzionale, bolla il fondatore della Repubblica popolare cinese come un criminale e anzi come il più grande criminale della storia, grida infine allo scandalo per il fatto che la Cina di oggi continua a rendergli omaggio.
In questo caso le manipolazioni sono tante e tali che non basta denunciarne una sola. Sì, è giusto sottolineare il carattere non intenzionale della tragedia in cui sfocia il Grande balzo [Schmidt, 2012]. Ma occorre procedere ben oltre. La tragedia della fame ha accompagnato la Cina a partire non dall’avvento al potere di Mao (che ha invece cercato disperatamente di porvi rimedio) ma dall’aggressione dell’Occidente colonialista. Basta leggere il libro recente di un celeberrimo uomo politico statunitense: alla vigilia delle guerre dell’oppio, «il pil della Cina era pressappoco sette volte quello della Gran Bretagna» [Kissinger, 2011, p. 44]. Qualche decennio dopo, la morte per fame non suscitava né sorpresa né indignazione: era un’ecatombe quotidiana. Nel complesso, se esaminiamo gli «anni 1850-1950», grosso modo il «secolo delle umiliazioni» che va dalla prima guerra dell’oppio e dall’irruzione del colonialismo sino alla vittoria nel 1949 della rivoluzione anticoloniale (e di orientamento socialista), e teniamo presenti le catastrofi che punteggiano questa grande crisi storica (invasioni militari, insurrezioni, «cataclismi naturali»), possiamo giungere a una conclusione: si tratta forse del periodo più sanguinoso nella storia del mondo.
Non solo la tragedia della fame in Cina è in larga parte il risultato dell’aggressione colonialista, ma questo risultato è stato spesso lucidamente perseguito o agitato come minaccia. Già nel 1793, l’inviato della Corona britannica, Lord George Macartney, avvertiva: in caso di mancato accoglimento delle sue richieste, grazie alla sua potenza navale, il governo di Londra era in grado di ridurre almeno le regioni costiere dell’Impero di Mezzo alla «fame assoluta» [in Kissinger, 2011, p. 43]. Oltre un secolo e mezzo dopo, uscita devastata dall’occupazione giapponese e da una guerra civile non ancora del tutto conclusa, la nuova Cina diveniva il bersaglio delle minacce militari e della guerra economica scatenata dagli Usa. L’amministrazione Truman perseguiva un obiettivo semplice e chiaro: approfittando anche dell’«inesperienza comunista nel campo dell’economia urbana», occorreva infliggere alla Repubblica popolare cinese «la piaga» di «un generale tenore di vita attorno o al di sotto del livello di sussistenza», occorreva condurre un paese dai «bisogni disperati» verso una «situazione economica catastrofica», «verso il disastro» e il «collasso» [Zhang, 2001, pp. 20-2, 25 e 27]. Ancora agli inizi degli anni Sessanta un collaboratore dell’amministrazione Kennedy, e cioè Walt W. Rostow, si vantava del trionfo conseguito dagli Stati Uniti, i quali erano riusciti a ritardare lo sviluppo economico della Cina almeno per «decine di anni» [ivi, p. 250].
Con le sue molteplici manipolazioni, la consueta demonizzazione di Mao a partire dal Grande balzo in avanti rimuove una domanda che pure dovrebbe essere elementare: la terribile carestia che fece seguito all’esperimento politico, senza dubbio sconsiderato, è da mettere sul conto esclusivamente del leader comunista cinese o anche e in primo luogo dei promotori di un embargo devastante? La domanda potrebbe persino diventare più pungente: sono più gravi le responsabilità di chi per inesperienza nella gestione dell’economia e per avventurismo politico ha provocato una catastrofe o le responsabilità di coloro che in modo intenzionale, consapevoli dell’«inesperienza» del nemico e avvalendosi della propria esperienza, quella catastrofe hanno voluto e prodotto? Domande analoghe sono legittime e doverose anche per quanto riguarda Piazza Tienanmen: che ruolo hanno svolto nella tragedia le interferenze statunitensi, ed esse miravano a facilitare o a rendere impossibile la conciliazione o il compromesso tra le due parti in lotta? Washington desiderava sventare o provocare lo spargimento di sangue (in modo da screditare il paese diretto da un partito comunista)? Le interferenze statunitensi, che a detta di Deng Xiaoping rischiavano di sfociare in una guerra con la Cina, avevano più a cuore la salvezza di vite umane o l’agognato assalto finale a quello che del movimento comunista restava nel mondo?

La distruzione della storia, dell’identità culturale, dell’autostima di un popolo non sarebbe completa senza la cancellazione del diritto del popolo assoggettato o da assoggettare al risarcimento morale per i torti da esso subito per un periodo più o meno lungo di storia. Il «secolo delle umiliazioni», di cui amano parlare i dirigenti cinesi, riassume le infamie subite da un popolo di antichissima civiltà che, a partire da guerre decisamente ripugnanti sul piano morale (le guerre dell’oppio), era aggredito da una potenza imperialistica dopo l’altra. In tempi brevi un processo di deumanizzazione lo collocava al livello più basso della gerarchia razziale, assieme a un altro popolo che a lungo è stato la vittima privilegiata del colonialismo e del razzismo a esso connesso. A fine Ottocento, se dinanzi a certi parchi pubblici del Sud degli Stati Uniti campeggiava la scritta: «Vietato l’ingresso ai cani e ai negri (Niggers)», a Shanghai, la concessione francese difendeva la sua purezza mettendo bene in mostra il cartello: «Vietato l’ingresso ai cani e ai cinesi» [Losurdo, 2005, cap. 10, par. 3]. Nel 1882, negli Usa veniva varato il Chinese Exclusion Act: chiamato a sventare la contaminazione proveniente dai migranti cinesi, esso subito diveniva un modello per i campioni anche europei della purezza razziale. Dopo aver subito nel 1900 la spedizione punitiva promossa congiuntamente dalle potenze imperialiste del tempo, la Cina diveniva poi, in seguito all’invasione giapponese, la vittima di una delle peggiori infamie della seconda guerra mondiale e della storia mondiale nel suo complesso. Lo dimostrano non solo la schiavitù sessuale imposta alle donne, le cosiddette comfort women costrette a «confortare» i militari dell’Impero del Sol Levante, e il famigerato massacro di Nanchino nel 1937. Dà soprattutto da pensare il processo di deumanizzazione, che raggiungeva una rara completezza: i cinesi costituivano il bersaglio vivente dei soldati giapponesi che si esercitavano ad andare all’assalto con la baionetta; per di più, essi erano talvolta usati e sacrificati quali cavie per la vivisezione e per altri atroci esperimenti condotti con armi batteriologiche. Ai responsabili e ai membri della famigerata unità 731, a questi criminali di guerra, gli Usa garantivano l’impunità in cambio della consegna di tutti i dati raccolti: nell’ambito della guerra fredda ormai alle porte, assieme alle armi atomiche venivano puntate anche quelle batteriologiche.
Riconoscere al popolo cinese il diritto al risarcimento morale per queste infamie comporterebbe la necessità di un’autocritica da parte di coloro che se ne sono resi responsabili, l’Occidente e soprattutto il Giappone, che peraltro è alleato degli Usa; d’altro canto, tale risarcimento potrebbe stimolare nel popolo cinese l’orgoglio per aver saputo porre fine con una grande rivoluzione a un periodo tragico della sua storia e aver saputo riavviarsi, grazie a sforzi accaniti e a un prolungato processo di apprendimento, sulla via che conduce al recupero dell’antica grandezza. Riconoscere il diritto al risarcimento morale per il grande paese asiatico significherebbe rinunciare all’obiettivo di minarne l’identità e l’autostima. A quanto pare, si tratta di un obiettivo a cui non si intende rinunciare.
In Giappone continua a essere meta di pellegrinaggio un cimitero, anzi un sacrario che, assieme ai resti dei soldati morti in guerra, raccoglie anche i resti dei responsabili delle infamie di cui si sta parlando, processati e condannati dal tribunale di Tokyo (l’equivalente asiatico di Norimberga) e giustiziati quali criminali di guerra. A quel cimitero-sacrario si recava a rendere omaggio Junichiro Koizumi, primo ministro dal 2001 al 2006, e si reca l’attuale primo ministro Shinzo Abe. Il governo e i sostenitori di quest’ultimo si stanno ora distinguendo nel passare con la spugna su un passato orribile. Quando non è totalmente negato, a ben poca cosa si riduce il massacro di Nanchino; le schiave sessuali diventano normali prostitute, dilegua persino l’invasione della Cina: si tratta di una categoria – obiettano i dirigenti giapponesi – che è controversa. Assente è l’ondata di indignazione che sarebbe stato lecito attendersi; l’Occidente non si scompone: il calendario sacro da esso fissato non ritiene meritevole di particolare attenzione la tragedia del popolo cinese.

Il risarcimento morale viene negato anche in un altro modo. Sulla stampa statunitense si possono leggere articoli, la cui tesi di fondo è questa: in fin dei conti, le vittime provocate in Cina dall’aggressione dell’Impero del Sol Levante sono inferiori a quelle che hanno fatto seguito alla terribile carestia della fine degli anni Cinquanta. In base a questa logica dovremmo assolvere un bel po’ di criminali: sono numerosi gli incidenti stradali che provocano più vittime che non un singolo assassinio! Ma prendiamo pure sul serio un paragone che mette a confronto grandezze così eterogenee. Per coerenza dovremmo allora ridurre a un’insignificante bagattella Pearl Harbor: il «giorno dell’infamia» (nel linguaggio di F. D. Roosevelt) è ben poca cosa rispetto alla guerra di secessione che, per gli Usa, ha provocato più vittime che i due conflitti mondiali messi assieme. Ma forse ha poco senso impegnarsi a confutare sul piano logico un ragionamento che mira soltanto a negare alla Cina il risarcimento morale.
Una volta conseguito questo obiettivo, non ci sono più ostacoli al dispiegamento del terrorismo dell’indignazione morale, che impicca Mao all’immagine di una vittima della grande fame e Deng all’immagine del carro armato di Piazza Tienanmen.
L’attuale presidente cinese Xi Jinping ha dimostrato di aver ben compreso la reale posta in gioco, allorché ha chiamato il suo paese a respingere il «nichilismo storico», e a respingerlo in relazione sia a Mao Zedong che a Deng Xiaoping.

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